Il prog-metal si presenta agli inizi del nuovo secolo dopo un decennio in cui è diventato uno dei baluardi musicali contro l’invasione del mercato del grunge e dell’alternative rock. A fine anni ‘90, lo stato di salute del prog-metal sembra buono: i Dream Theater hanno da poco realizzato Scenes from a memory (Metropolis part II), in cui ritornano alle sonorità di Awake e Images and Words; i Fates Warning hanno pubblicato un live (Still life) in cui hanno riproposto per intero il loro capolavoro del ‘97 A pleasant shade of gray e addirittura la suite The ivory gate of dreams del 1988; i Crimson Glory, sebbene orfani di Midnight, stanno tentando il ritorno con un album ambizioso come Astronomica. La seconda guardia (es.: Enchant, Shadow Gallery, Threshold) è in ascesa da almeno cinque anni e sembra destinata a nuovi successi ed a un migliore riscontro in termini di vendite.

Tutto sembrava andare quindi per il meglio, ma come sia andata in realtà, lo sappiamo tutti: in meno di due-tre anni il mercato discografico si polverizzò principalmente a causa della diffusione di un nuovo formato audio digitale (MP3) che rendeva molto più agevole scambiarsi file musicali rispetto al passato (quando si usavano i meno agevoli file .WAV) con il relativo aumento esponenziale del fenomeno della pirateria musicale. Ad acuire il danno della pirateria contribuì, in modi diversi, il progresso tecnologico: la diffusione delle prime connessioni internet a banda larga non fece altro che mettere benzina sul fuoco, a file leggeri si aggiunse così una particolare semplicità di diffusione dei file pirata; le nuove potenzialità dei software di produzione musicale (ProTools), invece, andarono ad intaccare il delicato equilibrio produzione-pubblicazione di musica inedita. In particolare, venne a mancare il filtro che una volta i produttori e le etichette ponevano tra gli artisti ed il mercato, in quanto chiunque con il giusto software poteva produrre a casa propria dischi la cui resa sonora era paragonabile a quella delle uscite ufficiali. Ciò però portò con sé come conseguenza il crollo vertiginoso della qualità di quanto arrivava in un modo o nell’altro sul mercato. Quindi, come profetizzato alla fine dei ‘70s da Malcom McLaren, nel nuovo millennio cambiò per sempre il modo in cui le persone fruivano della musica: ma anche se divenne più semplice creare musica o avere con sé la musica preferita, paradossalmente questa divenne ancor meno rappresentativa delle istanze sociali, dell’estrinsecazione degli stati d’animo o delle questioni politiche rispetto agli anni precedenti. E per quanto fosse gratificante, in un primo momento attorno agli inizi del 2000, che uscissero molti dischi che delle major non avrebbero mai prodotto perché ormai considerati fuori moda, con il passare del tempo il flusso continuo di note e bit senza alcun controllo o supervisione comportò paradossalmente la quasi impossibilità per giovani band valide di emergere. Conseguentemente, si allargò anche la forbice tra un mercato mainstream controllato con tutti i mezzi da due-tre grandi sorelle (risultanti dalle fusioni tra le vecchie major e in alcuni casi con le case di produzione cinematografica) che cercano tuttora di mantenere a tutti i costi le poche decine di migliaia di copie che è possibile ancora vendere ed un mercato underground che invece si è frammentato in mille rivoli e che molto a fatica sopravvive anche perché i musicisti che si muovono in questo segmento di mercato non riescono a vivere della “propria” musica (se non rare eccezioni).

Le difficoltà dell’underground musicale si sono riflesse in tutte i sotto-generi del metal (e non solo, quanto detto finora vale anche, se non di più, per il progressive in generale), tra i quali il progressive metal è stato uno dei più colpiti. Mancando una delle sue ragion d’essere, cioè contrapporsi al verbo musicale del grunge e dell’alternative rock (che come ogni moda a cavallo tra mainstream e underground furono spazzati via alla fine degli anni ’90), questo sotto-genere ha subito varie scissioni stilistiche che non hanno fatto altro che contribuire al suo declino che continua tuttora.

Semplificando moltissimo, lo scisma principale è avvenuto tra le band che hanno cominciato ad intendere il progressive metal nel senso etimologico del termine, cioè progredire verso nuovi stili, e le band che invece hanno mantenuto l’accezione originaria cioè quella di inserire elementi tipici del rock sinfonico nelle strutture musicali del metal classico.

Il mercato e la critica hanno accentuato la divisione, promuovendo e lodando band che nulla più avevano a che fare con la sacra triade Queensryche - Fates Warning - Rush. Infatti, quello che Tool, Mastodon, Meshuggah, Dillinger Escape Plan e altri hanno proposto negli anni duemila è sostanzialmente un astuto crossover tra sonorità grunge, nu-metal e finanche punk (ed infatti sono stati coniati nuovi termini come djent o mathcore). Per convincersene, si ascolti Lateralus dei Tool (uscito nel 2001), per molti la summa di quanto proposto da questa band: ritmiche tipicamente grunge e nu-metal, voce straniante che richiama i Radiohead o i Muse, atmosfere oppressive e batterie sincopate.

Molti gruppi, spronati da tali esempi, proseguirono in una continua evoluzione per certi versi più vicina al techno-thrash dei Voivod piuttosto che all’epicità dei primi Queensryche o Fates Warning. Sostanzialmente però, il progressive metal inteso come evoluzione del classic metal sopravvivrà quindi solo grazie allo stanco perdurare delle band madri, come i Dream Theater o i Rush. Molti altri sono entrati in crisi interna come i Queensryche o gli Stratovarius e pochissime nuove band sono riuscite a farsi notare.

Quella che segue è quindi una classifica diversa rispetto alle prime due di questa storia: essendo nella fase discendente del genere, i dieci dischi scelti abbracciano un arco temporale maggiore (circa 15 anni) proprio per poter fornire una panoramica più completa del sotto-genere fino ai giorni nostri.

10 RIVERSIDE - SECOND LIFE SYNDROME

(Inside Out, 2005)

Di origine polacca, i Riverside hanno saputo conquistarsi un posto al sole tra il mare di nuove band che si sono affacciate sulla scena progressive metal negli anni 2000. Musicalmente i nostri si muovono molto vicino al confine tra il metal ed un certo post-rock di maniera alla Porcupine Tree ed Anathema con il cantato che ricorda anche in qualche passaggio gli Opeth più malinconici ed evocativi. Il disco in questione vive soprattutto della title track e di poco altro, ma il livello qualitativo è tuttavia molto alto lungo tutto il cd.

9 CIRCUS MAXIMUS – ISOLATE

(Frontiers Records, 2007)

La giusta sintesi tra il progressive metal e l’AOR (Adult Oriented Rock). Il gruppo norvegese, non a caso, incide per l’etichetta leader nel mondo del genere (la Frontiers di Napoli). Il disco vanta un super hit quale Arrival of Love, che scomoda richiami illustri come Afterlife dei Dream Theater, ma ben figurano anche le due suite Mouth of Madness e Ultimate Sacrifice. Da riscoprire.

8 DREAM THEATER – A DRAMATIC TURN OF EVENTS

(Roadrunner, 2011)

Il decennio dei 2000s non sarà ricordato come il migliore per il Teatro del Sogno. L’inevitabile epilogo arriverà nel 2010 quando Portnoy lascerà la band per le classiche divergenze musicali con il resto del gruppo (un destino simile a quello dei Queensryche con Tate). I nostri però mostrano una capacità non comune nel reagire alla separazione e rilasciano l’anno successivo il miglior disco dai tempi di Scenes from a Memory. L’ispirazione è qui ai massimi livelli: On the Back of Angels, Bridges in the sky, Outcry sono tutti capolavori, ma è soprattutto la lunga suite finale Breaking all illusions (subito tra i classici) a ridare smalto ai nostri. Purtroppo il successivo omonimo disco si rivelerà uno dei peggiori della discografia del gruppo americano. Attendiamo la prossima prova, sperando in un nuovo colpo di reni.

7 OPETH - BLACKWATER PARK

(Music For Nations, 2000)

Autori di una parabola veramente unica che li ha portati dal death sperimentale di Orchid ad un retro-rock che esalta il progressive anni ‘70, gli Opeth girano la boa stilistica con questo Blackwater Park. Rispetto alle eteree atmosfere di gruppi progressive death ante litteram come Pestilence (Era Spheres) o Cynic (Focus) qui la violenza death è massicciamente presente ma diluita tra continui cambi di ritmo ed assolo che inseguono l’ascoltatore dall’iniziale Leper Affinity alla finale title track, con il picco di The drapery falls che riunisce magistralmente il prog ’70 con il techno metal anni ‘80. I nostri si ripeteranno ad altissimi livelli con il doppio Deliverance / Dammation ma già dal successivo Ghost Reveries l’ispirazione sembra un crinale in discesa fino all’ultimo controverso album Pale Communion.

6 RUSH - CLOCKWORK ANGELS

(Anthem, 2012)

Non sembri un’offesa nei confronti dei padri del progressive metal questa posizione. Il contenuto artistico è fuori discussione, ma alcuni filler, pur prevedibili in oltre un’ora di musica, abbassano la votazione del disco anche perché dai Rush ci si aspetta sempre il meglio. Detto questo, i canadesi sfornano con questo concept il loro miglior disco dai tempi di Counterparts del 1993. Ispirato ad un romanzo distopico di Kevin J. Anderson, il disco è variegato e mai piatto nel suo incedere, dall’inizio, segnato dalla maestosa title track, fino al capolavoro conclusivo The Garden (subito tra i classici). Dimenticati i controversi Vapor Trails e Snakes and Arrows, Clockwork angels rappresenta al meglio il sound dei Rush post ’90: progressioni ariose basate su solidi riff di Lifeson accompagnati dal drumming tellurico di un insostituibile Peart. Peccato poi per la cattiva idea di suonare dal vivo il disco con l’orchestra con il risultato di appesantire composizioni che esprimono il meglio nella versione originale.

5 NEVERMORE - DEAD HEART IN A DEAD WORLD

(Century Media, 2000).

I Nevermore concludono la loro parabola che li ha trasformati da una band techno-thrash in una realtà progressive metal con questo disco, reincarnando i migliori Sanctuary di Into the mirror black. Alla fine dei 90’s i Nevermore sono ormai una realtà affermata del mondo Metal e all’alba del millennio sanno di dover confermarsi ad altissimi livelli dopo il precedente concept sul suicidio di una giovane. E così fu. Pur confermando la struttura musicale del predecessore, i nostri ritornano verso tematiche sociali più generali e meno intimistiche. Musicalmente il disco alterna momenti furiosi e tesissimi (vedi il trittico iniziale Narcosynthesis, We Disintegrate e Inside Four Walls) a momenti che mescolano rabbia e frustrazione acustica come i due highlights del disco The Heart Collector e Insignificant. Ma è il famoso singolo Believe in Nothing, summa acustica di un nichilismo caro a Fates Warning e primi Dream Theater che traina questo disco verso le vette del genere: una struttura semplice ma avvincente, un testo oscuro e vagamente profetico ("And I still believe in nothing, Will we ever see the cure for our sorrow?"). Dal punto di vista musicale, in tutto il disco le aperture ed i fraseggi di chitarra di Jeff Loomis rimandano alla tipica matrice thrash anni ’80, mentre Warrel Dane domina la scena con teatrale e disarmante abilità mentre alterna ruoli da cattivo aguzzino o da narratore compassionevole dei mali eterni (ed incurabili) della nostra società. I Nevermore, dopo qualche episodio meno riuscito, si ripeteranno anche 10 anni dopo con un altro grande disco come The Obsidian conspiracy. Dead Heart In a Dead World rappresenta però la chiusura di un periodo, nonché di un modo di intendere il progressive metal “pesante” che pochi sapranno seguire dopo (Symphony X tra i gruppi storici e Andromeda tra le nuove leve).

4 FATES WARNING - DISCONNECTED

(Metal Blade, 2000).

I presagi dei tempi scuri da venire sono tutti presenti in questo disco pubblicato nell’estate del 2000 e che si apre/chiude con gli accordi più inquietanti mai prodotti da una band progressive metal. L’angoscia instillata dai due strumentali di apertura e chiusura (con qualche innesto di spoken words) di Kevin Moore richiama alla mente l’ultima canzone scritta dal tastierista per i Dream Theater (Space Dye Vest in Awake) e ne rappresenta una ideale continuazione. D’altronde il tema di quella canzone, come di questo disco da fine millennio, è quello della impossibilità di comunicare tra esseri umani, in special modo uomini e donne. La copertina è lontana da quelle fiabesche dei primi album ed introduce l’ascoltatore al mondo di solitudine dei protagonisti del disco: One e Pieces of Me sono solo il preludio all’esplosione delle prove su lunga distanza di Something From Nothing e Still Remains. Soprattutto quest’ultima canzone forse rappresenta il testamento musicale dei Fates Warning condensando in sé tutti i temi già ampiamente espressi nel capolavoro Parallels ma che qui vengono riassunti e portati all’estremo della delusione per la mancanza di comunicazione con l’altro(a). Disconnected non è ovviamente il miglior disco dei Fates Warning, ma è sicuramente un highlight dei ‘2000s visto che fonde alla perfezione tecnica e atmosfere sofferte/depresse tipiche di molto post-qualcosa. Solo dopo 13 anni i Fates Warning (Darkness in a different Light) sapranno ritornare ad un dignitoso livello, ma la sensazione che la magia sia ormai dispersa nel grigiore delle nebbie dei 90s è troppo forte per essere vinta.

3 PORCUPINE TREE – FEAR OF A BLANK PLANET

(RoadRunner, 2007).

I porcospini rappresentano di certo una singolarità nel panorama del progressive rock moderno. La loro multiforme carriera li ha portati a toccare diversi lidi musicali, pur restando con uno stile alquanto personale. Nel loro ondivagare, all’inizio degli anni duemila, i nostri scoprono dei suoni più duri di quelli esplorati negli anni ‘90 e immortalati nel loro famoso live Coma Divine del 1997: In Absentia e Deadwing tracciano infatti un solco che trova il culmine artistico in questo disco del 2007 in cui gli echi pinkfloydiani si sposano con le ritmiche più rilassate dei Dream Theater e atmosfere acustiche alla Silent Lucidity dei Queensryche. Pur prendendo spunto anche da realtà post-rock molto diverse dal progressive metal come i Radiohead, i porcospini però riescono magistralmente nel compito di ridefinire alcuni standard del genere, ad esempio amalgamando la struggente ma mai isterica voce di Wilson con chitarre ruvide in modo da evitare la sgradevole produzione moderna o peggio ancora grungesca che pervade i dischi dei Tool. Certo, vi sono alcune concessioni ad un certo rock ruffiano e soporifero che piace tanto ai critici, ma il disco si propone come progressive metal soprattutto in virtù di atmosfere ricercatissime e virtuosismi strumentali difficili da reperire nelle uscite degli anni 2000: si ascolti la iniziale title track, la opethiana e katatoniana Way out of Here ma soprattutto il capolavoro Anesthetize, che con i suoi 17 minuti di cambi di ritmo e atmosfere si candida ad essere la Change of Seasons del nuovo millennio. Il disco lancerà definitivamente Wilson nel firmamento dei grandi del progressive aprendogli una fulgida carriera solista e da produttore, culminata nell’ultimo The Raven that refused to sing ma al contempo condannerà i porcospini all’impossibile compito di superare un’opera praticamente perfetta.

2 PAIN OF SALVATION - REMEDY LANE

(Inside Out, 2002)

I Pain of Salvation tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo secolo si stavano proponendo come una vera ventata di aria fresca nel panorama metal. Il merito era soprattutto del leader, Daniel Gindelow, che iniettava le liriche del gruppo di elementi autobiografici ma anche e soprattutto di critica sociale e politica. I molteplici interessi del cantante, ad esempio, avevano permesso ai nostri di ideare un album centrato sul problema dello smaltimento delle scorie nucleari (One hour by the concrete lake). Nel futuro, però, la varietà di questi stessi interessi porterà i Pain of Salvation a pretendere da loro forse un po’ troppo (si veda il controverso Be del 2004). Ma a quel punto della carriera, il mastermind invece ripiegava sul suo passato e cominciava a ricordare la sua adolescenza e la rileggeva con gli occhi di un (giovane) adulto. Il progetto cominciava con il bellissimo The perfect Element (idealmente pari merito con questo disco, trainato da capolavori come Used, In The Flesh, Ashes e Morning On Earth) e sarebbe continuato quindi con il successivo Remedy Lane. Questo disco ha aleggiato su tutta la decade come il riferimento assoluto per qualunque band volesse suonare progressive metal di qualità. I Pain of Salvation qui toccano il loro apice compositivo e, volenti e nolenti, saranno perseguitati per sempre dal suo successo. E più se ne allontaneranno (per comprensibile desiderio di cambiamento ed evoluzione) e più coloro che erano lì quando questo disco è uscito avranno attacchi di nostalgia acuta. Basterebbero già solo le prime note di Beginnings per capirlo: notte in albergo a Budapest, flash-back evocativo e pudico di prime esperienze sessuali che introduce il personaggio del protagonista maschile che vediamo in copertina cercare di comunicare (invano) con quello femminile. Ma appena parte Ending themes comprendiamo ancora di più che i nostri sono in stato di grazia. Tutto il disco non è facilmente catalogabile, ma un punto fermo c’è ed è chiaramente il protagonista, alter ego di Daniel Gindelow che ci mette a parte delle sue paure, delle sue incertezze e dei suoi ricordi. To be honest, I don’t know what I’m looking for sintetizza lo stato d’animo sospeso tra una Misplaced Childhood ed un Hotel Hobbies tipico di chi trascorre gran parte della propria vita in tour. Il simil-rap centrale che ricorda ancora una volta i Faith No More sarebbe un’ignominia in qualunque disco progressive metal ma qui i nostri sono sinceramente su altissimi livelli di ispirazione. Fandango ci riporta al passato dei due protagonisti con un crescendo che introduce uno dei capolavori dell’album, A trace of blood. Impossibile rimanere insensibili al dramma di un bambino perso quand’egli è ancora nel ventre della madre. Tiriamo due sospiri di sollievo con This Heart Of Mine e Undertow, che pagano pegno alle influenze pinkfloydiane dei nostri prima di ripiombare nell’incubo ad occhi aperti di Rope Ends, che ricorda con i suoi tempi dispari un po’ i Dream Theater. I nostri quindi si concedono delle variazioni acustiche con Chain Sling e Dryad of the woods prima della mazzata di Waking every God che comincia a far spirare un qualche bagliore di speranza dopo drammatiche esperienze. Musicalmente è il secondo capolavoro, progressive metal da manuale che aggiorna le atmosfere immortali di Images and Words e Awake. Il viaggio si conclude con Daniel che tira la fila di questa lunga notte in albergo assediato da fantasmi cattivi veri ed immaginari: veri come la donna “così giovane” che scopriamo essere realmente lì con lui e che gli ha scatenato il turbinio di ricordi della sua adolescenza, immaginari come la donna che non è con lui e a cui lui è però rimasto fedele, almeno nel ricordo. La musica svanisce così, lasciando anche a noi molti dubbi se effettivamente il protagonista abbia superato la crisi. Resta però la sensazione di aver almeno percorso con Daniel una strada che ci ha permesso di conoscere meglio noi stessi con la stessa triste consapevolezza dei protagonisti della storia "Watch them dance... Always being much more human than they wished to be.. They built up a world so wonderful so pure and tense.. stained only now and then by the blood of their young innocence...".

1 SEVENTH WONDER - MERCY FALLS

(Lion Music, 2008)

Gli ingredienti del capolavoro degli anni 2000 sono, se vogliamo, molto antichi: un concept album circolare, una trama accattivante, misteriosa quanto basta da permettere all’ascoltatore di inventarsi quasi da solo una propria personale storia ricamando sui tanti angoli lasciati appositamente oscuri dalla narrazione, il tutto condotto da una base metallica e progressiva forse mai così ben amalgamate. Giunti al terzo album, dopo due ottime prove, specialmente il secondo disco Waiting in the Wings, nessuno si sarebbe aspettato una simile performance da questo giovane gruppo dal punto di vista compositivo ed esecutivo. Talmente evidente è il salto di qualità che se i nostri avessero vissuto negli anni ‘90 e avessero dato alle stampe questo disco, sarebbero oggi un’affermata band (almeno come i Symphony X) ed il dotato cantante (Tommy Karevick) non avrebbe accettato la proposta dei bolsi epic metallers Kamelot di sostituire un grande Roy Khan (specialmente adesso che la linfa di quella band si è ormai esaurita da tempo…). Il disco comincia come nel più classico dei concept album: There and Back ci introduce quasi tutti i temi musicali del disco e ci rendiamo conto che i nostri stanno per riportarci sui lidi dei Dream Theater di Metropolis part 2: ritmiche energiche su tappeti di tastiere armoniose ed atmosferiche che evocano il miglior progressive metal degli '80-'90. In Unbreakable i nostri risalgono ancor di più i piani alti del progressive metal di classe con scale, stoppate e cambi di ritmo che disorientano ma al tempo stesso mantengono una (in)sana melodia che rende impossibile andare avanti il lettore. I fraseggi di tastiera sono omaggi al prog americano anni ’70 e la scarica finale rimanda alle cose migliori dei Dream Theater. Tears for a Father è un interludio acustico su cui è difficile non commuoversi ma non c’è n’è il tempo materiale perché si riparte subito in quarta con A Day Away la cui fuga finale ci ricorda che il progressive metal è anche figlio degli Helloween e delle twin-guitars dei Judas Priest mentre il finale ci riporta ai tempi di Pull me Under. Paradise continua il discorso melodico di A day away e ricorda tanto i conterranei Circus Maximus dell’anno precedente. Fall in line invece apre un ipotetico lato B (siamo a metà del nostro viaggio) con una nuova cavalcata alla Dream Theater con tanto di assolo iniziale alla Petrucci. Un break alla Queensryche epoca '84-'86 introduce la lunga e complessa Break The Silence mentre Hide And Seek è un altro highlight assoluto in cui si rincorrono tastiere e chitarre in un crescendo ed un assolo assolutamente imperdibili. Il finale di tastiera ci rimanda direttamente agli ’80 ma è solo un attimo perché il dipanarsi delle armonie iniziali di Destiny Calls ci rimanda immediatamente a Metropolis in un quasi plagio mitigato solo da un’atmosfera melodica tipicamente nord europea. One Last Goodbye è il climax del disco in cui le varie trame vengono svelate fino alla sorpresa finale di cui vi raccontiamo nel box. Con la conclusiva Black Parade musicalmente siamo più vicini all’Epic Power dei Kamelot e forse per questo il nostro bravo Tommy sarà qualche anno più tardi da loro reclutato.I Seventh Wonder ovviamente non sapranno più ripetersi a questi livelli ma con questo concept hanno senza dubbio lasciato un’eredità enorme, difficile da raccogliere per i gruppi a venire.

La storia di Mercy Falls

Il disco comincia con il suono di una macchina che sbanda e urta qualcosa. Cosa è successo? Solo dopo ripetuti ascolti si comprendono le parole dei soccorritori che trovano due persone nell’auto, una viva, l’altra in fin di vita. Salto temporale e ci ritroviamo ad ascoltare un dialogo tra due persone, un uomo ed una donna con un inquietante rumore di sottofondo che sa molto di ospedale… There and Back introduce il tema del concept e ci mostra il luogo dove vive il protagonista. Il luogo si chiama Mercy Falls, che introduce anche il tema lirico del disco: nessuno lascia questo posto, ma perché? Sono frequenti anche dei temporali, ma perché la gente si intristisce per essi? E perché la popolazione è così aperta e gentile con chi vi arriva? Si continua con il protagonista che incomincia a conoscere meglio Mercy Falls (Unbreakable), affascinato da luoghi e persone, in particolare una donna che vive (o piuttosto è intrappolata?) in un luogo dove nessuno vuole andare. Tears for a Father ci racconta di stralci di vita senza un padre mentre A Day Away parla di bambini che giocano e si divertono materializzati da un passato remoto. Tears for a son ci fa ritornare nell’ambiente ovattato dell’inizio e di nuovo la voce maschile nasale ci dice che qualcuno deve essere curato con una qualche terapia. Musicalmente questa volta abbiamo un piano che accompagna il dolore di un genitore che veglia su un figlio ma nulla in più. Ritroviamo il nostro protagonista a Mercy Falls che viene sorpresa da un temporale che minaccia di spazzarla via. Il nostro si adopera per aiutare gli altri ma qualcosa sta accadendo... Break the Silence ci regala la confessione di qualcuno (NON il protagonista) che ha tradito il suo partner a causa del fascino “dell’altro” credendo che fosse il vero amore: gli indizi cominciano a combaciare ma i nodi cominciano a venire al pettine solo in Hide And Seek dove ritroviamo il protagonista che, scampato il pericolo del temporale, capisce che quella donna nell’edificio pauroso può significare qualcosa per lui (). In particolare, c’è il riferimento ad una barriera di vetro che ci fa intuire che Mercy Falls è separata dal resto del mondo. Dopo un break pinkfloydiano è come se ci svegliassimo (anche qui il verbo è scelto non a caso) con il protagonista che si ritrova imprigionato in un altro corpo, con altri occhi, e che cerca disperatamente di liberarsi. Se prima avete trattenuto le emozioni, sul duetto di One Last Goodbye non potrete resistere perché finalmente capiamo che in quell’ ospedale vi era un letto, su quel letto c’era il nostro protagonista in coma, imprigionato nel suo mondo di sogno separato dalla realtà, e che intorno a quel letto vi era una donna giovane (la moglie), un bambino (il figlio) ed una donna anziana (la madre di lui) disperati per la sua sorte. Ma il nostro protagonista è in realtà vigile, vivo e pronto a rompere quella barriera () ma il trapianto di midollo (la terapia di cui prima) è andato male e non c’è più speranza. Il ricordo continuerà a vivere ma il suono della macchina lentamente si spegne mentre ascoltiamo un dialogo angosciante tra madre e bambino che chiede se finalmente il padre potrà riposare: la madre gli risponde sì e decide che il momento di staccare la spina è giunto! E così il protagonista muore. Tutto finito? No! Flash back… pioggia forte… voce della donna che parla a colui che abbiamo conosciuto come protagonista: la donna riesce a stento a dire ed il protagonista non dice altro che e l'auto va a sbattere contro l’albero, come udito all’inizio. Il cerchio è chiuso e arriva la canzone più cattiva del lotto, quella Black Parade che incede come una nemesi a ricordarci quanto il male possa essere vicino a noi.. troppo a volte. Complessivamente il plot della storia è intrigante ma mostra qualche ingenuità (è realistico pensare che una donna faccia fare un trapianto al suo uomo, ancorché tradito, con il midollo di un figlio non suo per cui il trapianto andrà sicuramente male, il tutto per nascondere un tradimento al bambino e alla madre di lui?) ma il punto di vista è innovativo e ci porta interrogativi che difficilmente trovano una risposta…è lecito staccare la spina di una persona in coma dopo tanti anni? E se costui o costei stesse proprio in quel momento per risvegliarsi?

Top 5 Italia

Come per il resto del mondo, anche la scena Progressive Metal italiana, protagonista del decennio precedente, ha sofferto di un generale calo di ispirazione, pur mantenendo la sua peculiarità di fondere insieme il Progressive classico, il Power Metal anni ’90 ed il dark sound nazionale degli anni ’70 e ’80. Ciò ha comportato la riduzione del bacino di utenza del genere fino a raggiungere solo la cerchia dei soli addetti ai lavori, eccezion fatta per i grandi gruppi come Rhapsody of Fire, Labirynth e Vision Divine.

Altra causa di questo progressivo allontanamento del grande pubblico la mancanza di concerti e l’assenza di un “gioco di squadra” tra le moltissime band disseminate lungo lo stivale che impedisce l’affermarsi di festival trasversali che possano coinvolgere gli ascoltatori del Progressive, del Power e del Metal classico. Seppur costrette a muoversi in un contesto difficile, alcune band sono però riuscite a sfornare veri capolavori. Questi i nostri top 5.

5 PRESENCE – GOLD

(Black Widow Records, 2001)

Un disco che, pur presentando alcuni brani su standard elevatissimi (Lightening, The stronghold conjuration) manca purtroppo di omogeneità. Penalizzati dalla diradazione delle uscite, i nostri non riuscirono a fare il salto di qualità che tutti si attendevano con questo disco. Assenti dalle scene da ormai troppi anni confidiamo nella prossima reunion per un nuovo inizio.

4 MINDKEY - PULSE FOR A GRAVEHEART

(Frontiers Records, 2009)

Un perfetto mix tra le melodie Hard Rock e le ritmiche in tempi dispari del Progressive Metal. Tutti i brani hanno una elevata qualità, ma sono memorabili soprattutto Crusted Memories e Graveheart. Il disco che i Dream Theater non hanno saputo scrivere negli ultimi dieci anni. Penalizzati da uscite molte diradate e dalle poche uscite dal vivo, restano tuttavia una delle realtà migliori della scena.

3 VISION DIVINE – STREAM OF CONSCIOUSNESS

(Scarlet Records, 2004)

La creatura di Olaf Thorsen raggiunge qui il suo culmine artistico, con un concept album diviso in quattordici movimenti, chiaro omaggio ai Fates Warning di Pleasant Shade of Gray, da cui sono ripresi sia i toni della copertina che i temi delle lyrics. I momenti più riusciti sono Versions of the same e The fallen feather, ma il disco è ovviamente da ascoltare dall’inizio alla fine tutto d’un fiato. Oltre all’assoluto valore artistico, il disco ha il merito di lanciare anche Michele Luppi ormai divenuto una super star affermata nel panorama Heavy italiano insieme a Rob Tiranti e ovviamente Fabio Lione.

2 TIME MACHINE – EVIL

(Underground Symphony, 2001)

Dopo Galileo Galilei, i Time Machine elaborano un nuovo semi-concept basato questa volta su un personaggio ideato dallo scrittore Valerio Evangelisti, l’inquisitore Eymerich che vive a cavallo del suo presente (il ‘500-‘600) ed il nostro presente. Il mix personale di metal, atmosfere oscure e accenni gregoriani dei nostri è qui portato a livelli compositivi mai più raggiunti. Il capolavoro è l’iniziale Where’s my heaven, che tradisce tutto l’amore dei nostri per Queensryche epoca Operation Mindcrime e Fates Warning epoca Parallels, ma tutto il disco si mantiene su livelli molto elevati. La terza parte del concept è attesa ormai da troppi anni: cosa aspettate a rientrare?

1 ANTONIUS REX - SWITCH ON DARK

(Black Widow Records, 2006)

L’atteso ritorno su lunga distanza dell’entità Antonius Rex ha rappresentato un nuovo inizio per Bartocetti che a partire da questa opera ha pianificato sino al 2015 con cura una rinascita anche per l’altra sua creatura, Jacula. Switch on dark aggiorna il suono classico di capolavori come Neque semper arcum tendit rex o Praeternatural con in più massicce dosi progressive alla Goblin e Malombra. Proprio i Goblin vengono in mente ascoltando le iniziali Perpetual adoration e Damnatus in Aeternum, brani che sprizzano malvagità da tutti i pori e che potrebbero fare da colonna sonora a qualsiasi horror a tinte gotiche. Il disco è da ascoltare nel silenzio della notte dall’inizio alla fine, ma è soprattutto la title track a spiccare: una marcia infernale di quasi venti minuti guidata da inquietanti organi, alternati ad assolo lancinanti e voci eteree stranianti. Il finale del disco si segnala per il trionfo gotico di Fairy Vision, quindici minuti che mescolano al classico Bartoccetti sound i Queensryche di Suite Sister Mary, e per la più progressiva Mysticdrug, con aperture melodiche ispirate alla Jennifer dei Goblin. Capolavoro assoluto del progressive moderno.

Italo Testa

Agosto 2014

Ultimo aggiornamento (Lunedì 25 Maggio 2015 11:06)