Moongarden - The Gates of Omega

Il 2001 è stato uno degli anni migliori del prog post anni ’70. Merito di una serie di uscite di altissimo livello qualitativo e di due album in particolare: Mind vol. 2 degli Isildurs Bane e The gates of Omega dei Moongarden. Quest’ultimo rappresentava il terzo lavoro di una band che già si era fatta apprezzare nella decade precedente con il buon esordio Moonsadness, caratterizzato da un new-prog di buona fattura, e con il seguente Brainstorm of emptiness, in cui si cominciava ad intravedere una personalizzazione del loro rock sinfonico che avrebbe raggiunto il culmine con il passo successivo. Stiamo parlando di un gruppo che ruota attorno ad una delle figure più carismatiche del panorama italiano degli ultimi venti anni, Cristiano Roversi, bassista, tastierista, compositore, negli anni recenti anche produttore discografico e direttore artistico. Con The gates of Omega i Moongarden riescono a creare qualcosa di unico, merito dell’incredibile momento di ispirazione del loro leader.

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Per comprendere appieno il valore di The Gates of Omega basta pensare che risulta tra i migliori di un’annata spettacolare, il 2001, in cui sembrava quasi che le numerose scintille che c’erano state negli anni immediatamente precedenti erano esplose in maniera definitiva. I colossi di un tempo ricominciavano a sfornare lavori pregevoli, mentre le giovani speranze cercavano di distaccarsi da certi stereotipi fin troppo abusati nel mondo del prog, puntando a personalizzare le loro proposte e, aiutate anche da una tecnologia sempre più alla portata di tutti, erano in grado di toccare anche un buon livello di professionalità. E’ chiaro che visto il numero elevato di uscite cominciava anche un periodo in cui diventava più difficile emergere con un’offerta così ampia da poter mettere in confusione anche il più attento degli appassionati nelle sue scelte d’acquisto. Di sicuro, i Moongarden, con The gates of Omega, piazzarono un colpo sensazionale.

Il 2001, un anno spettacolare!

Basta pensare che in quest'anno furono pubblicati tra gli altriì: Cielo & terra dei Germinale, Bucsuzas dei Kada, Tuhkamaa degli Haikara, Maelstrom degli Avant Garden, Metanoia dei Nexus, Vendredi 13 degli One Shot, Diffraction dei Priam, Elementi delle Orme, No stranger to the skies dei Glass, Supersisterious dei Supersister, Culinaire lingus degli Ange, The live cuts degli Artsruni, Il manuale dei piccoli discorsi delle Distillerie di Malto, Pictures dei Finnegans Wake, l’omonimo esordio degli Akineton Retard e dei Kvazar, The case against the art dei French TV, Pieroino dei Gatto Marte, Le festin degli Halloween, Springsong degli Hostsonaten, Delusione ottica dei Jet Lag, Nivraym dei Koenjihyakkei, Revolutions dei Magenta, Out of the blue degli In Cahoots, Mekano dei Miriodor, Views di Pekka Pohjola, Medieval Zone di Jenny Sorrenti, Tuscany dei Renaissance, Magnification degli Yes, Primetime degli Assolo di Bongo, Egocaine degli Slowmovies, la trilogia live Theusz Hamtaak dei Magma, Mind vol.2 degli Isildurs Bane. E potrebbero essere citati ancora diversi altri dischi di enorme qualità…

Il mondo del prog, inoltre, in quel periodo a cavallo tra i nineties e il nuovo secolo, viveva un momento di nuova vitalità, con artisti emergenti che da tutto il mondo lanciavano le loro proposte e che grazie agli ultimi sviluppi tecnologici riuscivano ad arrivare agli appassionati con maggiore facilità. E’ storia nota che i fasti degli anni ’70 non sono stati ripetuti, ma grazie all’affermazione di internet le cose, nel prog, assumevano una vivacità insperata fino a pochi anni prima. I newsgroup, i forum, le chat (oggi antenati dei social network) e le prime webzines permettevano ad appassionati e addetti ai lavori di essere in contatto più diretto e, soprattutto, immediato. Se non molto tempo prima per avere una notizia bisognava attendere per mesi l’uscita di una fanzine, ora le informazioni viaggiavano in tempo reale e raggiungevano gli interessati praticamente all’istante, anche in un microcosmo come quello del prog. Cristiano Roversi e Mauro Moroni, il responsabile della Mellow Records (etichetta per la quale sono usciti i primi tre lavori dei Moongarden), sono sempre stati molto attivi su internet e già solo il percepire le loro impressioni sul web su un disco che stava per andare in stampa suscitò enorme curiosità in chi aveva già seguito i Moongarden in passato e non solo.

Registrato nell’inverno del 2000 con una line-up che vede Roversi impegnato al Chapman Grand Stick, alle tastiere, al piano e al fretless bass e coadiuvato dal nuovo cantante Luca Palleschi, dal preziosissimo David Cremoni alle chitarre acustiche ed elettriche e da Massimiliano Sorrentino alla batteria, The gates of Omega esce nella primavera successiva e chi decide di acquistare subito l’album ne rimane subito entusiasta. Due cd, otto tracce nuove di zecca, circa cento minuti di grandissima musica, influenze diverse indirizzate verso un percorso sonoro di una certa originalità, registrazione impeccabile e pulita, una sorta di concept che ruota attorno ad un momento difficile del leader del gruppo. Gli ingredienti di partenza sono già allettanti…

Ma cosa rappresentano i cancelli di Omega che danno il titolo al disco? Be’, tutto nasce dall’ispirazione che ha animato Cristiano Roversi nella realizzazione di quest’opera, vale a dire un amore finito che è stato causa di grande dolore. Un dolore che traspare dai testi così come dalla musica. Così, Omega, la fine, rappresenta un periodo della vita in cui non tanto per scelta si va incontro a cambiamenti drastici, necessari dopo un evento che è stato causa di una forte sofferenza. Una sofferenza accompagnata da abbondanti dosi di malinconia, che solo il tempo potrà lenire, anche se rimarranno delle cicatrici. E i cancelli diventano, così, il simbolo di un passaggio difficile ed importante durante un lungo percorso introspettivo.

Inserendo il primo dischetto nel lettore, si parte con Forever chained, un brano di circa otto minuti, che comincia con una parte recitata e suoni d’atmosfera, ma che ben presto prorompe in un new-prog molto accattivante, dagli arrangiamenti sopraffini ed anche con un bel refrain orecchiabile. Facciamo la conoscenza di Luca Palleschi, che aveva il compito di sostituire un cantante molto apprezzato come Riccardo Tonco. La sua prova fuga immediatamente ogni dubbio, merito di ottime capacità vocali e di un bel timbro che può anche ricordare vagamente Ray Wilson. Si entra anche subito nel mood del lavoro, con una certa malinconia evidenziata anche da un testo che comincia a farci capire le difficoltà di Roversi. A seguire 5 years è un’encomiabile ballata orientata verso un romanticismo genesisiano venato di tristezza, tra dolce note di piano che si alternano con chitarra acustica e voce. Dopo tre minuti e mezzo entra la batteria e si prosegue su ritmi cadenzati fino ad uno dei meravigliosi assolo di chitarra che Cremoni regala. Si arriva così ad uno dei pezzi forti dell’album, la chilometrica title-track, suite che viaggia oltre i ventisette minuti. Cominciamo a vedere i Moongarden che osano di più, che all’influenza dei Genesis di base aggiungono molto altro e che si muovono in direzioni inaspettate. I tempi lenti che guidano la parte iniziale, con tastiere sullo sfondo e melodie malinconiche dettate dalla chitarra e dalle parti vocali, contribuiscono a dare un alone di mistero alla composizione. Come dicevamo oltre all’ispirazione derivante dalle opere di Tony Banks e compagni iniziano a vedersi nuovi riferimenti, a partire da sonorità sicuramente care a David Sylvian. Così, verso i dieci minuti, questa magnifica composizione si sviluppa verso un sound ancora più atmosferico: la batteria sparisce, le tastiere vanno in primo piano creando scenari ambient e suggestioni ancora più elegiache. Cominciano delle vere e proprie oscillazioni sonore, delle fluttuazioni cosmiche che possono persino ricordare certe cose dei Tangerine Dream, accompagnate anche da effetti quali versi di gabbiani e di altri animali. Verso i diciassette minuti torna la batteria; va in crescendo, fa aumentare la sensazione di drammaticità, si interrompe all’improvviso e si ascoltano rumori di passi, finché, verso i ventidue minuti, si ritorna verso temi un po’ à la Genesis, con Roversi impegnato in un bell’assolo che può ricordare il Banks del 1976-77 e che lentamente porta a conclusione la lunghissima traccia. Come quasi in ogni testo dell’album, Roversi si pone degli interrogativi ("Now what if I fall? What if I drown? What if I fade away?" – "Cosa succede ora se cado? Se annego? Se svanisco?") e sembra raggiungere consapevolezze amare (“And now it’s over / Passions dead / Crying out / I’m going beyond the Gates” – “E ora è finita / Le passioni morte / Gridando / Vado verso i Cancelli”). Ventisette minuti coinvolgenti e deliranti, non una nota è fuori posto e siamo già consci di essere di fronte ad un album eccezionale. Il primo cd si chiude con un brano che vede ancora un cambiamento di sonorità, ma non di atmosfere: si tratta di Moonsong, quattro minuti di ritmi elettronici e suoni moderni, con una ripresa della parte recitata iniziale.

Dopo questa prima scorpacciata si passa al secondo cd e troviamo subito un’altra suite di oltre sedici minuti, Home sweet home. La band sembra voler proseguire con quello spirito di ricerca che tende ad accorpare le esperienze del glorioso passato del rock sinfonico ad un sound caro al Sylvian solista. Questo avviene soprattutto nella prima parte cantata e struggente, in cui il protagonista continua il suo percorso carico di dolore (“This world is a film / My eyes watch / But my heart is sick / I can’t play the game / Too much pain everyday” – “Questo mondo è un film / I miei occhi guardano / Ma il mio cuore è malato / Non posso giocare / Troppo dolore ogni giorno”), dopo di che il gruppo si lascia andare in una sezione strumentale che riprende splendidamente certe coordinate new-prog con ottimi intarsi culminanti in un favoloso assolo di Roversi alle tastiere ancora capace di emulare alla grande il miglior Banks. Ancora Genesis nelle parti successive, tra arpeggi di chitarra, echi lontani di mellotron e l’intensità delle parti vocali e nuovi intrecci strumentali carichi di pathos. Segue un altro dei picchi dell’album, la meravigliosa Castles of sand. Si tratta di un brano carico di un romanticismo sognante, che ben si sposa ad un testo in cui riecheggiano ricordi di un passato non lontano insieme alla persona amata. L’inizio è per piano e voce, cui fa seguito una lunga parte strumentale in cui diventa protagonista assoluto David Cremoni che fa viaggiare la sua chitarra in un assolo di incredibile bellezza, con il quale sembra “attualizzare” il prog dei Camel di Andy Latimer. Il finale del pezzo recupera certo ambient, con suoni ipnotici, con la chitarra che interviene a intervalli regolari con poche note ed una conclusione che fa venire in mente la genesisiana Silent sorrow in empty boats. Altro giro altra suite con Stars and tears, diciassette minuti a cavallo tra Marillion e Genesis, pieni di cambi di tempo, echi di mellotron e ottime intuizioni solistiche. E si arriva al gran finale, affidato a Moonsong – The conclusion, che in quasi dieci minuti strumentali riprende e approfondisce il sound dell’ultima traccia del primo cd, tra ritmi elettronici compassati e nuove affascinanti soluzioni trovate da Roversi e Cremoni.

Avrete capito a questo punto che non siamo di fronte al “classico” album di rock sinfonico, con tutti quei cliché consolidati e seguiti da una miriade di artisti. Ambizioso, spiazzante, elegante, emozionante, The gates of Omega è senza dubbio uno dei vertici del prog degli ultimi 30-35 anni. Riascoltato a distanza di tredici anni dalla sua uscita lascia ancora impressionati per la qualità della musica, l’abbondanza di idee e la personalità mostrata dai Moongarden. Il disco, sia all’uscita che nel corso degli anni, sembra aver raccolto opinioni contrastanti. Un valore elevato gli viene riconosciuto quasi all’unanimità, ma c’è stato chi ha puntato il dito su eccessive lungaggini e su contaminazioni non troppo gradite per chi è abituato ad ascoltare un rock sinfonico “strutturato” in forme ben consolidate da decenni. Addirittura, la ristampa uscita pochi anni fa ha ridotto l’opera ad un solo cd. Nonostante ciò, la realtà, a parer di chi scrive, è che The gates of Omega, nella sua versione originale, resta un disco perfetto in ogni sua parte, senza punti deboli, un vero e proprio capolavoro di prog moderno. I Moongarden hanno proseguito con altri dischi di grande validità, esplorando diverse direzioni, ma cercando sempre di proporre un progressive rock personale, al passo con i tempi e pronto a varie contaminazioni, confermandosi realtà importantissima e da seguire. E li seguiremo anche nel loro prossimo parto discografico, che sembra imminente.

Peppe

Agosto 2014

Ultimo aggiornamento (Lunedì 25 Maggio 2015 11:04)