FINISTERRE Finisterre

(1994, Mellow Records)

“Si tratta del più bel disco prog uscito in Itaia dai tempi di Locanda delle Fate. Si concludeva così la recensione dell’esordio dei Finisterre, firmata da Stefano Covili, sull’ultimo numero della fanzine Melodie & Dissonanze, uscito all’inizio del 1995. L’album era stato pubblicato da poco, ma l’apprezzata rivista ci stava già indicando che eravamo di fronte ad un lavoro che poteva segnare un’epoca. Oggi, a distanza di diciotto anni, possiamo assolutamente confermare che quell’articolo che sembrava una sorta di investitura è stato lungimirante, profetico (“Questo stesso suono rischia di diventare un riferimento a sé stante per gli anni a venire”) e correttissimo. Già con il successivo In limine, la band realizzerà un altro gioiello, che per molti ha anche superato l’omonima opera di debutto. Non è stato facile “sacrificare” per quest’articolo il secondo lavoro dei Finisterre, con il quale si è osato anche di più, tra una maggiore sperimentazione sonora, arrangiamenti particolarmente ricercati ed una suite, Orizzonte degli eventi, che viene spesso vista come il manifesto del gruppo. Quindi perché preferire puntare sul primo album? Di sicuro non è stata una scelta facile e potrei anche indicare come motivazione il semplice fatto che è… uscito prima! E qui forse è doverosa una veloce digressione per esaminare rapidamente com’era il panorama prog in quegli anni, fertili sotto molteplici punti di vista.

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C’era, infatti, un forte entusiasmo tra fan e addetti ai lavori: gli anni ’80 e le difficoltà che questi portarono nel mondo del progressive erano ormai alle spalle e, dopo vari timidi tentativi di coraggiosi gruppi emersi alla fine degli eightes, il panorama cominciava a farsi particolarmente ricco e vivace. Piccole case discografiche, tra ristampe e nuove uscite, destavano curiosità e rinnovato interesse. Con i gruppi del new-prog inglese in una fase quasi di stallo, era la triade svedese formata da Anglagard, Anekdoten e Landberk a catturare una forte attenzione. A confermare l’universalità del prog, ci preme anche ricordare che all’inizio degli anni ’90 gli ungheresi After Crying realizzavano album grandiosi e personali. Mostri sacri del passato come King Crimson, Pink Floyd, Camel, Emerson, Lake & Palmer si ritrovavano dando alla luce nuovi dischi e ricalcando i palcoscenici con ritrovata energia. In Italia, gruppi come Nuova Era, Eris Pluvia, Ezra Winston, Notturno Concertante, Asgard, Devil Doll e Deus Ex Machina avevano già rivitalizzato un genere che fino a poco prima sembrava spacciato. Riviste amatoriali sorgevano in continuazione e artisti emergenti trovavano spazio anche nei magazine dedicati al metal che finivano in edicola. Si cominciavano ad organizzare festival che prevedevano l’esclusiva presenza di gruppi prog e inevitabilmente scattavano paragoni pesanti con i celebri raduni italiani degli anni ‘70. Gli americani Echolyn firmarono addirittura per la Sony, pubblicando nel 1995 il celebrato e bellissimo As the world, che dava agli appassionati la speranza di una nuova esplosione del progressive rock, con conseguenti riscontri mediatici. Come oggi ben sappiamo, quella speranza è rimasta disattesa, eppure quel periodo è stato fertilissimo e, oltre a gettare le basi per lo sviluppo di un movimento quantitativamente molto fertile che dura ancora oggi (pur rimanendo una nicchia ristretta del mercato discografico), ha permesso a tante band di farsi apprezzare, lasciando testimonianze importantissime. Basti ricordare che, anche solo rimanendo in Italia, nel triennio 1994-96 uscirono fantastici album come Path of dreams dei Garden Wall, Abraham dei Quasar Lux Symphoniae, De Republica dei Deus Ex Machina, Creazione degli A Piedi Nudi, … e il suo respiro ancora agita le onde… dei Germinale, De’la tempesta l’oscuro piacere degli Aufklarung, La vita che grida di Tony Carnevale, l’omonimo del Trono dei Ricordi

Insomma, qualcosa si muoveva, eppure nessun disco e nessun gruppo di quegli anni è riuscito a lasciare un’impronta forte come quella segnata in maniera così marcata dai Finisterre. La band genovese aveva infatti firmato un debutto assolutamente esaltante, che si innalzava ben al di sopra della media qualitativa delle produzioni del periodo. A posteriori, si può anche notare come per la prima volta un paragone tra un disco degli anni ’90 e quelli degli storici seventies non fosse così imbarazzante e/o campato in aria, tanto è vero che oggigiorno non pochi cultori vedono i Finisterre come una band fondamentale del prog italiano, al fianco e non al di sotto, dei vari PFM, Banco, Orme, Area, ecc.

Messa sotto contratto dalla Mellow Records, una delle scuderie simbolo del prog italiano (tra ristampe e novità vantava già all’epoca un catalogo ampio e interessantisismo), la band si presentava all’esordio con una line-up che vedeva Sergio Grazia al flauto, Marco Cavani alla batteria e alle percussioni, Stefano Marelli alle chitarre e alla voce, Boris Valle alle tastiere e al pianoforte e Fabio Zuffanti al basso e alla voce. Ad accompagnare il quintetto di base ci sono Edmondo Romano (reduce dalle esperienze con gli Eris Pluvia) al flauto e al sax, Osvaldo Loi alla viola e al violino ed altri cantanti che andavano a formare un coro.

E veniamo all’incredibile contenuto sonoro dell’album. Si parte con i tre minuti di Aqua, una sorta di introduzione con suoni di piano e svisate di chitarra elettrica a disegnare un’atmosfera particolare, quasi gabrieliana. E’ però con Asia che si entra nel vivo del lavoro: cinque minuti di magie strumentali, che diventano un biglietto da visita subito straordinario per i Finisterre; la sei corde, le tastiere, il flauto si intrecciano e si danno il cambio alla guida del brano, su ritmi sempre spediti, in un rock romantico che rievoca i fasti degli anni ’70 e che sembra voler gettare un ponte tra le esperienze britanniche e quelle italiane. Segue la prima composizione ad ampio respiro, Macinaaqua macinaluna, aperta da un bel tema di basso supportato da un ottimo drumming, immediatamente seguito dall’intervento degli altri strumenti. La chitarra e le tastiere spingono sul versante prog con sonorità altisonanti ed ogni tanto ci sono degli stacchi in cui si ritaglia spazi unicamente il pianoforte che propone celebri frasi di musica classica (nello specifico si tratta di brevi citazioni di Mozart e Gershwin). Verso i tre minuti è ancora il solo piano ad introdurre per la prima volta il cantato. Qui sembra che i Finisterre si spostino, come sound, verso il Banco del Mutuo Soccorso più elegante e meno rock (anche se le parti vocali rappresentano forse l’unico elemento non del tutto convincente) e presentano anche un testo abbastanza curioso e ricercato (rimane celebre l’incipit “Tu hai il profumo dolce del mio panno da Subbuteo”). E’ di nuovo la chitarra elettrica a intervenire e dare una scossa e a dare il la per i tre minuti finali che vanno avanti tra crescendo altisonanti e break improvvisi con continui cambi di tempo e di atmosfera. A spezzare quest’aura romantica che si è creata con le prime tre tracce, giunge un altro strumentale, … dal caos…, brano di quattro minuti più ruvido e nervoso, nel quale la chitarra preferisce addentrarsi maggiormente negli schizoidi percorsi di cui è maestro assoluto Robert Fripp, ben supportata dagli altri strumenti (fiati compresi) in distorsioni sonore di rara efficacia e dissonanze mai troppo spinte. E poi il capolavoro nel capolavoro, intitolato ΣΥΝ! Quindici minuti strumentali che fanno capire al meglio di cosa sono capaci i Finisterre! Piano e flauto fanno partire la composizione con un’eleganza straordinaria che unisce meravigliosamente melodia mediterranea e raffinatezza classicheggiante. Entra poi la chitarra elettrica, stavolta splendidamente hackettiana e cominciano questi giochi di alternanza tra romanticismo delicato e vibrante prog sinfonico, di pieni e vuoti, di frammenti in chiaroscuro, di lampi di musica colta con tanto di archi e fiati. In un lunghissimo ed elaborato brano i musicisti riescono veramente a fare di tutto con una personalità più unica che rara, mettendo alla base la loro passione per il progressive italiano degli anni ’70, pronti a riproporlo in una veste nuova, in tessiture sonore dal fascino antico, ma che risplendono qui di vita propria, senza riferimenti specifici, mantenendosi ben distanti da operazioni di clonazione di grandi del passato (al massimo segnaliamo nuovi omaggi a Gershwin col sax), senza timore di mettere in mostra sfrontatamente la loro bravura e “semplicemente” impegnati a far dialogare i loro strumenti in maniera magistrale. Isis, secondo pezzo cantato, è invece sotto certi aspetti più sperimentale, alternando melodie d’alta scuola e ricercatezze sonore più bizzarre, fino al finale sognante e prettamente acustico, con arpeggi di chitarra, flauto e voce, con qualche eco genesisiano, a portare a termine il brano. Cantoantico è un altro tour de force, con oltre dodici minuti di sonorità che vanno dal barocco al rock, avanzando tra docili melodie e quegli intarsi strumentali che abbiamo già imparato ad apprezzare enormemente. A conclusione del cd troviamo Phaedra, particolarmente frizzante, con sette minuti strumentali vibranti, ritmi veloci, tastiere e chitarra a condurre e riferimenti non troppo nascosti ai Genesis (non a caso nelle esecuzioni live di questo brano la band inserirà una ripresa di Firth of Fifth, con l’axeman Marelli a deliziarsi e a deliziare il pubblico proponendo l’assolo reso immortale da Steve Hackett), indirizzati comunque verso questa identità sonora già forte e personale mostrata dai Finiterre.

Ricapitolando, otto brani, di cui ben cinque interamente strumentali, colpi di genio, un songwriting già maturo grazie agli impasti sonori articolati e all’affiatamento perfetto tra i vari musicisti ed una musica ricca di personalità e qualità che cattura fin dalle prime note, spingendo a riascolti attenti per catturare tutte le finezze proposte dalla band. Il rispetto per la storia del prog si unisce alla voglia di dire qualcosa di nuovo, di brillante, di intelligente, lontano dalle banalità di quelle proposte che prevedono schemi scontati come un semplice compitino. Quel paragone con la Locanda delle Fate non è né blasfemo né campato in aria e rappresenta la semplice realtà delle cose. A tutt’oggi, sono davvero pochissimi i dischi italiani usciti che per le caratteristiche evidenziate finora possono avvicinarsi al valore dell’esordio dei Finisterre.

Dopo quest’esperienza il gruppo si esibirà dal vivo in importanti festival, avrà pause, defezioni e nuovi innesti, scioglimenti e reunion, realizzerà nel 1996 il citato In limine, e assesterà poi una discografia composta da quattro album in studio, due dal vivo ed un cd di inediti, più alcune partecipazioni a dischi tributo. In questa carriera la band non si accomoderà mai sugli allori, cercando nuove sfide e linguaggi sonori anche diversi rispetto al debutto, muovendosi, a volte, su una ideale borderline tra il prog ed altri orientamenti stilistici, pur mantenendo standard qualitativi particolarmente elevati. E la speranza che la macchina Finisterre si metta di nuovo in moto per regalare nuove emozioni resta sempre alta in chi ha amato e supportato il gruppo in questi anni. Molto dipenderà molto dagli impegni che avrà Fabio Zuffanti, che, con il passare del tempo, è diventato un nome ed un personaggio iperattivo nel mondo del progressive. I suoi progetti sono ben conosciuti dagli appassionati, infatti, il musicista ha proposto altri album di grande valore con i nomi di Hostsonaten, La Maschera di Cera, Aries, Quadraphonic, Lazona, Rohmer, L’Ombra della Sera. E non vanno dimenticati i suoi diversi lavori solisti, la rock opera Merlin, il libro O casta musica e la recentissima attività di direttore artistico per la neonata Mirror Records, che ha da poco dato alle stampe le sue prime pubblicazioni con i cd d’esordio del progetto Oxhuitza e degli Unreal City. E tutto parte da lì… da quegli anni ’90… dall’amore per il prog… e da quell’album, il più bello dai tempi di Locanda delle Fate…

Peppe

marzo 2013

Ultimo aggiornamento (Martedì 02 Settembre 2014 17:51)