alt Brani:
1. Falling in another Dimension (2:57); 2. My Gladness after Sadness (9:39); 3. It Will Be the End (5:26); 4. Good Is Evil (5:30); 5. The Race of My Life (5:19); 6. Antarctica (5:51); 7. Scream and Die (7:35).
Formazione:

Daniel Elvstrom: vocals; Marco Olivieri: guitars; Andrea Fazio: drums; Ivan Giribone: bass; Andrea Sgarlato: keyboards.

2013, Black Widow - durata totale: 42:34

Per chissà quali strani motivi, questo esordio dei Flower Flesh è arrivato sulla nostra scrivania solo recentemente e siamo lieti di parlarne in questa sede, sebbene in ritardo di più di un anno.Il quintetto savonese nato nel 2005 (Daniel Elvstrom alla voce, Andrea Fazio alla batteria, Ivan Girobone al basso, Marco Olivieri alle chitarre e Alberto Sgarlato alle tastiere) sviscera in queste sette tracce una serie di rimandi al new prog (Marillion su tutti), al progressive italiano (PFM) e perfino alle cose più leggere e romantiche dei Dream Theater (Falling into Infinity). Diciamo subito che il disco scorre molto piacevolmente, ma paga troppe volte un dazio pesante alle influenze musicali del gruppo. Si ascolti ad esempio l’opener Falling in another dimension in cui i nostri ricordano un altro gruppo italiano che citava modelli inglesi, i Fancyfluid. Le cose migliorano con il pezzo più lungo del lotto, My Gladness after the Sadness, circa nove minuti in cui i nostri provano a mescolare il new prog con la PFM, doverosamente omaggiata con un verso in lingua madre (Dolcissima Maria). Le suggestioni marilliche continuano con la divertente It will be the end (ancora il fantasma dei Fancyfluid che ritorna), mentre con God is evil (like the Devil) troviamo rimandi ai Doors (nelle tastiere e soprattutto nel cantato che imita Morrison), ovviamente ai Marillion e anche qualche spruzzata del Petrucci di Surrounded nel finale. The race of my life è una strana mini-suite divisa in 5 parti con diversi cambi di atmosfera, dagli onnipresenti Marillion ai Floyd fino ai Balletto di Bronzo (anche qui omaggiati con un verso in italiano), e con interessanti soluzioni tastieristiche intrecciate a fraseggi di chitarra: forse andava sviluppata maggiormente ma il risultato resta comunque buono. Antarctica prende in prestito il riff iniziale dai Queensryche di Revolution Calling (ovviamente meno pesante) per poi ritornare su territori new prog in cui i nostri si muovono benissimo, specialmente nel cambio di ritmo che ricorda gli immortali Clepsydra di Fears. Infine, Scream and die, si apre lenta, vagamente alla Kansas, per poi rinvigorirsi con una progressione alla Dream Theater veramente pregevole per poi chiudersi di nuovo in un finale drammatico che però avrebbe meritato una prestazione vocale migliore. Oltre alla onnipresente sensazione di deja-vu, non manca qualche pecca nella produzione: il suono della chitarra perde qui e lì corposità, mentre le armonie vocali talvolta non si amalgamano bene con il tessuto strumentale, forse per il tentativo di usare la lingua inglese quando ci sembra che i ragazzi siano molto più a loro agio con la lingua madre. Peccati veniali, questi, in confronto alla pessima copertina e lettering che penalizzano un’opera tutto sommato gradevole che speriamo possa essere solo l’inizio per il gruppo di Savona.

Italo Testa

Ultimo aggiornamento (Lunedì 18 Maggio 2015 11:44)