alt  Brani:
1-Luminol; 2-Drive home; 3-The holy drinker; 4-The pin drop; 5-The watchmaker; 6-The raven that refused to sing.
Formazione:

Steven Wilson: lead vocals, mellotron, keyboards, guitars, bass guitar on "The Holy Drinker"; Guthrie Govan: lead guitar; Nick Beggs: bass guitar, Chapman Stick on "The Holy Drinker", backing vocals; Adam Holzman: keyboards, hammond organ, piano, minimoog; Marco Minnemann: drums, percussion; Theo Travis: flute, saxophone, clarinet.

Additional musicians
Jakko Jakszyk: additional vocals on "Luminol" and "The Watchmaker"; Alan Parsons: haw-haw guitar on "The Holy Drinker"

2013, K Scope - durata totale: 54:43

È sempre un compito difficile recensire un disco di Steven Wilson. In ambito progressive, il Nostro (con i suoi Porcupine Tree) è stato sicuramente molto bravo a prendere uno degli ultimi treni che passavano alla fine degli anni ’90 per raggiungere il successo che permette ad un musicista di vivere con la propria musica, grazie soprattutto ai suoi molteplici interessi musicali ed alla sua propensione da mastermind di “one man band”, il che gli ha garantito una grande libertà di espressione e, quindi, la possibilità di non restare trincerato in un unico genere come accaduto a molti artisti di quegli anni.
Ciò, naturalmente, gli ha alienato le simpatie di molti progsters, duri e puri, che hanno sempre storto il naso alle sue releases al limite del prog Metal e di certo post rock di qualità dei Porcupine Tree (Deadwing, In Absentia, Fear Of A Blank Planet) ed anche ai suoi primi veri e propri lavori solisti del 2008 e del 2011 (chiaramente, qui non ci riferiamo al live dello scorso anno, Get All You Deserve).
Contemporaneamente e simmetricamente, le sue puntate dal 2000 in poi come produttore degli Opeth e degli Anathema (seppur ormai lontani dal loro passato death-doom) gli attiravano critiche strumentali da parte del circuito musicale mainstream. Fieramente, il Nostro ha continuato ad andare avanti, conservando la sua attitudine ed arrivando anche ad una collaborazione con Mikael Akerfeldt degli Opeth nel progetto Storm Corrosion dello scorso anno.
Solo i meno attenti a questa ultima collaborazione (forse marginale per molti) e a tutto il lavoro di restauro che sta portando avanti Wilson con i dischi dei King Crimson e dei Jethro Tull potevano, quindi, restare spiazzati da The raven that refused to sing, che praticamente abbandona sperimentazioni e pure un certo gusto prog metal (ahimè!) per ritornare dove tutti i fan volevano che Wilson tornasse, cioè al progressive vero e proprio. Ciò lo rende un grandissimo disco nel suo insieme, meno cerebrale ed introspettivo del disco degli Storm Corrosion ma, sicuramente, di maggiore impatto e qualità.
The raven that refused to sing regala sin dalla magnifica opener Luminol (già proposta nel tour del precedente disco) le praterie musicali degli Yes di Close to the edge e dei Jethtro Tull di Thick as a brick. Il mellotron è sempre ben presente come anche break canterburiani e genesisiani (chiaro il riferimento a Foxtrot), fino al finale che sembra mutuato dagli Anglagard di Hybris. Si riprende fiato con la dolce e floydiana Drive home, per poi ripartire in quarta con la crimsoniana The holy drinker che offre break in tempi dispari ed un finale à la Dream Theater che a loro volta si rifanno agli ELP. Peccato solo per la voce un po’ monotona del Nostro, da sempre un punto debole anche dei Porcupine Tree. The pin drop è vicina agli ultimi Anathema e, nel contempo, riconduce ai Pain of Salvation più ispirati di inizio anni 2000. The Watchmaker è un omaggio diretto ai Genesis più intimisti di Trespass, mentre il break centrale mischia di nuovo un flauto à la Jethtro Tull d’annata coi King Crimson meno cerebrali, fino al gran finale in stile Van Der Graaf Generator. La title track è una ballata che richiama i Radiohead ed i Porcupine Tree, e per questo resta un episodio sottotono e un po’ sonnacchioso che si salva forse solo nella conclusione maestosa à la ELP.
Guardando la sua evoluzione, difficilmente Wilson si ripeterà nel prossimo disco, per cui crediamo che siffatto prestigioso tributo agli anni ’70 rimarrà isolato nella sterminata discografia del Nostro. Di conseguenza, godiamoci il parto di questo grande musicista, nella speranza che almeno qualche traccia rimanga nei suoi futuri lavori.

Italo Testa
giugno 2013

Ultimo aggiornamento (Giovedì 06 Marzo 2014 15:36)