LE ORIGINI DEL PROG METAL

Il decennio d’oro dell’evoluzione del Metal: dalle contaminazioni di genere al rinnovamento in chiave progressiva

È fuor di dubbio che il Metal negli anni ’80 abbia vissuto la sua stagione migliore. Per tutti gli amanti di questo genere musicale, quegli anni sono considerati come l’età dell’oro, dove tutto (o quasi tutto) quello che si doveva inventare fu inventato e da dove ha preso ispirazione quasi tutto ciò che è venuto dopo. Gli anni ’80 per gli ascoltatori metal sono divenuti inconscio collettivo, mito condiviso, luogo di leggende ed epopee. Il mito si tramanda ancora oggi attraverso riviste dedicate solo a quegli anni, siti web, ristampe, ed il suo fascino non accenna a diminuire. Sicuramente una delle ragioni risiede nella scomparsa quasi repentina dal mainstream musicale del Metal dagli inizi degli anni ‘90. La ferita di Seattle, del Grunge e dell’Alternative ha in un certo senso favorito la creazione di “un’epica metal” che narra di band e scene sparse per il mondo ma soprattutto in Europa (l’America fu l’epicentro del sisma e non si è mai del tutto ripresa anche a causa di un concomitante affermarsi su MTV e Billboard di un perlomeno discutibile pensiero unico riassumibile nell’equazione Musica = Rhythm and Blues). Tali band, nel modo più underground e nascosto possibile, hanno attraversato il deserto creativo degli anni ’90, resistito a tutti gli attacchi esterni, e sono giunte fino a noi, infine riemergendo in un mondo diverso, dove non c’era più l’underground ma nemmeno un mercato musicale.

La fine degli anni ’80 ed il Grunge

Facciamo un passo indietro, fino all’11 gennaio del 1992. I Nirvana arrivano al numero 1 di Billboard con Nevermind (uscito il 24 settembre dell’anno precedente). Per il movimento indie americano è il coronamento di un lungo percorso che parte dalla fine degli anni ’70 e arriva appunto agli anni ’90. La lunga battaglia del College Rock guidato da Rem e Sonic Youth nei confronti del Corporate Rock, che negli anni ’80 significava Heavy Metal, era stata vinta. Se un’oscura band della piovosa Seattle come i Nirvana riusciva a competere con Garth Brooks (noto cantante country) per il numero 1 negli USA, il mondo musicale stava cambiando. Quello che si sperava era che il cambiamento fosse per il meglio, ed invece… sappiamo come andò: il mondo del Metal, che in fondo aveva influenzato anche i Nirvana, fu letteralmente divorato dal Grunge che mangiò il padre e tentò anche di cancellarlo dalla storia. Come per il rock sinfonico degli anni ’70 la cui morte fu “decisa” dai giornalisti inglesi per lanciare Punk e Post‑Punk, così, allo stesso modo, anche tutto il mondo che girava intorno al Metal negli anni ’80 fu decretato morto a favore del Grunge e dell’Alternative (nel 1989 non a caso veniva pubblicato anche l’album degli Stone Roses che dava vita di fatto al Brit Pop).

Tra le varie anime che andavano a formare la selva dei sottogeneri del “padre” Metal (primi tra tutti il Death ed il Black), quello che ora chiamiamo Progressive Metal fu il capofila del tentativo di tenere in vita ed aggiornare le sonorità metal tradizionali fornendo il necessario volano anche al parente stretto Power (ed infatti i due generi si sarebbero spesso intersecati negli anni a seguire, vedi i Blind Guardian di Nightfall in the Middle Earth). Perché questa missione fu affidata proprio al Progressive Metal? A nostro avviso, perché alcune caratteristiche stilistiche del Progressive Metal (che vedremo tra poco) rispondevano alla sistematica de‑strutturazione del rock proposta dal Grunge che mirava unicamente a “sottrarre”: meno produzione, meno tecnica, meno atmosfera, meno parti strumentali, minore lunghezza, meno colori nelle copertine (Bleach dei Nirvana in fondo era proprio come varechina sulla musica del tempo…), meno componenti dei gruppi, meno tastiere… si potrebbe continuare a lungo. E la risposta non poteva essere che fondere il Metal con quel genere che in passato aveva vicino a quei sostantivi (produzione, tecnica, atmosfera, ecc.) un grande “segno più”: proprio il Progressive, cancellato anni prima, sopravvissuto a stento negli anni ’80 solo grazie ai Marillion. E così fu. Basta guardare la copertina del manifesto del Prog Metal, Images and Words, uscito appena un anno dopo Nevermind: un tripudio di colori che promette un viaggio in un mondo che sta scomparendo!

Ma cosa significa veramente Progressive Metal? E quali sono queste caratteristiche stilistiche che lo hanno eletto a baluardo del Metal più tradizionale negli anni duri del Grunge?

Prima del Progressive Metal: il Techno Thrash

Negli anni ’80 non erano stati ancora coniati i nomi dei generi che avrebbero in seguito caratterizzato il Metal. Per quasi tutto il decennio, il Metal era Metal e basta. Non vi erano aggettivi prima del sostantivo, al massimo “heavy”. Se, da un lato, questo aiutò il movimento ad assumere un’identità abbastanza precisa durante il decennio basata su determinate caratteristiche quali l’aggressività, la voglia di scandalizzare, i contenuti forti sin dalle copertine che portarono al famoso adesivo Parental Advisory del PMRC (Parents Music Resource Center), dall’altro fece sì che molti gruppi cominciassero a proporre soluzioni, specialmente verso la fine del decennio, che non erano affatto metal (le cosiddette contaminazioni) e che portarono sì aria fresca nel panorama ma alla lunga minarono le certezze dei fan, con conseguente disorientamento in cui fece facile breccia la semplicità ed immediatezza esecutiva del Grunge e dell’Alternative.

In questo periodo di transizione, infatti, il mercato fu invaso da gruppi come i Mordred (Fools’ Game del 1989), Faith no More (The Real Thing del 1989), Living Colour (Vivid del 1988), i seminali SOD (Speak English or Die del 1985), che proposero album ibridi che disabituarono molte metal heads all’ascolto del canonico metal classico anticipandone quindi il tracollo che si sarebbe avuto da lì a poco. Non era insomma “strano” in quel periodo che su una stessa cassetta il lato A contenesse l’ultimo di Ozzy Osbourne, mentre il lato B un album dei Faith no More. Ma l’esplosione di queste band non provocò solo danni: come sempre, per effetto contrario all’azione, cominciò a nascere e svilupparsi per reazione un manipolo di band che volevano sì innovare il Metal ma senza mischiarlo a generi del tutto lontani (rap e hardcore fan e metallari si erano odiati fino a qualche anno prima). La prima possibile innovazione fu quella di far impennare la curva del tecnicismo sin dalle origini presente nel Metal. Da sempre il Metal, quello classico à la NWOBHM (New Wave Of British Heavy Metal) ma anche e soprattutto il Thrash e perfino l’AOR/Class (AOR sta per Adult Oriented Rock), era fatto da gente (Journey, Dokken) che sapeva suonare. Bene. Ma la complessità non era troppo pubblicizzata: i Mercyful Fate, ad esempio, avevano dischi pieni di assolo e strutture complesse, eppure il loro trademark era il satanismo vero o presunto di King Diamond. Quindi, visto che quei gruppi crossover avevano decisamente abbassato il tasso tecnico (d’altronde, l’Hardcore non aveva nella cifra tecnica la sua migliore caratteristica), occorreva bilanciare il tutto migliorando la propria tecnica e offrendo canzoni che fossero il più “sofisticate” possibile. Era il primo vagito consapevole di quello che, inizialmente, sarebbe stato chiamato Techno Metal (soprattutto Techno Thrash, perché la base era quella) e poi, dopo l’avvento di certa musica da discoteca e del conseguente discredito dell’aggettivo “techno”, assumerà il nome di Progressive Metal.

L’affermarsi del Progressive Metal

Alla prima innovazione ne seguirono altre (ideazione di concept album, tastiere predominanti, testi intimisti e pessimisti). Il perché dell’affermarsi dell’aggettivo “progressive” è semplice: prima ancora che vi fosse piena consapevolezza che sonorità degli anni ‘70 potevano essere riscoperte, rivedute e corrette secondo il modo di vedere “metallico”, il Progressive diventò, per i giornalisti, il riferimento più facile da trovare nell’ambito musicale per giustificare quell’anelito ad esibire capacità tecniche e arrangiamenti fuori dal normale che negli anni ’90 stava caratterizzando le opere dei Dream Theater e di tutti i loro epigoni (Enchant, Shadow Gallery, Threshold). Non erano stati infatti i “dinosauri” degli anni ’70 come gli Yes o gli ELP a creare magniloquenti opere in cui vi era ampio spazio per i virtuosismi dei componenti? E non erano stati forse i Pink Floyd a porre maniacale attenzione ai dettagli in tutte le loro produzioni più famose? Ecco, dunque, che quel manipolo di band che aveva inaugurato la via dell’innovazione negli ’80 fu riconosciuto a posteriori come il nucleo fondante di quello che solo dopo il 1993 si cominciò a chiamare Progressive Metal. Prima, negli anni ’80, quando cioè questi dischi uscivano, era ancora Heavy Metal. Ed è quello che le band che ora citeremo sapevano di fare, solo con un tocco “diverso”. Quel tocco era la “progressione” verso il futuro…

Dieci ascolti suggeriti per comprendere il progressive metal negli anni ‘80

10. VoivodDimension Hatross (1988, Canada, Noise Records)

Nella vasta discografia dei Voivod, Dimension Hatross si rivela uno dei capitoli più coesi, essendo maggiormente focalizzato e con una direzione ben chiara, sin dalla copertina (il “Voivod”, un cyborg che minaccia il genere umano).

A partire dall’opener Experiment i Nostri mettono in chiaro la loro idea di Techno Thrash: tipico assalto in tempi dispari arricchito da ritmiche tipiche del periodo (Testament, Exodus) ed inserti di voce e chitarre vagamente psichedeliche, per un risultato veramento unico al tempo. Le contaminazioni proseguono con Technocratic Manipulators e Macrosolutions to Megaproblems che mischiano, nel stile proprio Voivod, una cavalcata à la NWOBHM ma a singhiozzo, accelerazioni punk e una chitarra dal suono più segnatamente europeo. Brain Scan è, se possibile, la più psichedelica del lotto, straniante e pesante al tempo stesso, e si lega benissimo a Psychic Vacuum che ne prosegue il tema ma ritornando su solide basi speed metal (vedi l’assolo centrale). Cosmic Drama è il capolavoro che chiude il disco con un cantato freddo e distante su un tappeto distorto che aggiorna il crescendo dei Rush di 2112 riunendo almeno per un momento i Voivod ai loro illustri connazionali.

9. Sieges EvenSteps (1990, Germania, Steamhammer Records)

Questo secondo disco dei Sieges Even definisce alcuni punti fissi del Progressive Metal, cominciando a guardare ai Rush.

La suite iniziale di 25 minuti, The Tangerine Windows of Solace, con le sue sette parti, rappresenta una evoluzione naturale di Hemispheres dei Rush. Epitome introduce il tema della suite che si ripresenterà varie volte: un riff lugubre che ricorda molto i canadesi ma che, allo stesso tempo, regala all’ascoltatore una sensazione di “anticato” che affascina e che influenzerà tutti i gruppi techno‑death che all’inizio dei ’90 faranno gridare allo scandalo i fan del Death Metal (Cynic, Focus, Pestilence), mentre il cantato evocativo ben si amalgama nella struttura. Se Apotheosis alterna alle influenze Rush il Techno Thrash dell’esordio, Seasons of Seclusions cita anche i Fates Warning di Perfect Symmetry, ma ha dalla sua un’epicità tipicamente mitteleuropea. La successiva An Essay of Relief cita ancora i Fates Warning, questa volta di No Exit (vedasi la traccia Quietus) mentre Disintegration of Lasting Hope riscopre il Techno Thrash e si ricongiunge al tema della suite con la conclusiva Elegy.

Il secondo lato inizia con la title track dell’album, e qui ritorniamo a territori ultra tecnici con un Techno Thrash che incontra i Rush di Tom Sawyer e Red Barchetta fino a sfociare in un assolo quasi AOR. The Vacuum Tube Processor è la migliore intro possibile all’altro capolavoro del disco, An Act of Acquiescence. Qui i Nostri ci vanno giù duro con i cambi di ritmo e le ritmiche a tempi dispari a cui il buon Franz Herde tenta di donare, se possibile, un’aria ancor più sinistra (si ascolti il break centrale). Il finale di Anthem, dedicato alla prima guerra mondiale, anticipa di qualche anno le atmosfere tetre e drammatiche di Pleasant Shade of Gray dei Fates Warning e ci regala un dolce arpeggio su cui sfumerà l’intero album ritornando al clima simil Hemispheres rushano dell’inizio.

8. Watchtower Control and Resistance (1989, Stati Uniti, Noise Records)

Questo disco rappresenta forse il culmine creativo del movimento denominato Techno Thrash, e per tale ragione ne causò in un certo senso la morte. I Watchtower stessi divennero una buona metafora per il genere, in quanto dopo questo disco furono messi in stand‑by dal loro mastermind Ron. Control and Resistance è l’apice del genere perché, pur nella sua brevità, regala tutte le caratteristiche che poi saranno riprese da molte guitar‑hero band nel Progressive Metal degli anni ’90, una fra tutte i Symphony X. Inoltre, rispetto ai loro epigoni, i Watchtower avevano dalla loro un cantante strepitoso (Alan Tecchio) ed una struttura dei pezzi complessa eppure molto riconoscibile in pochi ascolti.

L’opener Instruments of Random Murder è una fuga thrash con tanti di quei cambi di ritmo che all’ascoltatore sembra di essere trasportato da una jam session dei Mercyful Fate ad una dei Metallica, senza soluzione di continuità. The Eldritch sembra inizialmente una canzone dei Testament che, però, diventa ben presto una fuga degli Helloween più folli fino a concludersi con una sezione a cui i Nevermore devono davvero tanto. Mayday in Kiev è un tempo dispari oggi classico ma all’epoca del tutto innovativo, anche perché i Nostri lo accompagnano come se fosse una Red Barchetta impazzita. The Fall of Reason riecheggia inizialmente le soluzioni techno thrash di Steps che i Sieges Even avevano ripreso nel loro di debutto, mentre la parte centrale inaugura i break atmosferici che faranno la fortuna dei Dream Theater, Nevermore e di molto Technical Death di inizio anni ’90. La title track è il capolavoro del disco. Immaginiamo di mischiare Mercyful Fate, Helloween, Rush e Metallica e avremo, forse, un’idea di quello che i Nostri ci propongono: la ormai classica fuga prog metal è qui standardizzata e si tratta di uno standard molto alto, visto che pochi gruppi nel futuro riusciranno ad eguagliarla. L’assolo è complesso al punto che sembra che di chitarristi ce ne sia una intera squadra, ognuno impegnato in un compito, molto diverso da quello degli altri. Lyfe Cycles è la naturale prosecuzione dei sette minuti della track precedente, mentre Hidden Instincts e Dangerous Toy chiudono il disco tornando su binari più consoni al Techno Thrash.

7. SanctuaryInto the Mirror Black (1990, Stati Uniti, Epic Records)

Into the Mirror Black anticipa molti temi del Progressive Metal degli anni 2000, proponendo sì la potenza del Techno Thrash imperante dell’epoca ma mitigandolo con un elemento che i vari Watchtower, Sieges Even e compagnia avevano del tutto dimenticato e che, invece, era alla base di un certo Heavy Metal di metà anni ’80, e cioè la capacità di creare “atmosfera”.

Eppure, nei primi due brani, solo l’intro di Future Tense fa presagire qualcosa prima di svilupparsi su ritmiche care ai conterranei Metal Church, mentre Taste Revenge richiama gli Armored Saint di Raising Fear più pesanti. Le cose diventano terribilmente serie con Long Since Dark: sin dal sinistro arpeggio iniziale comprendiamo che si sta andando oltre i connazionali Metal Church e Armored Saint, alternando cavalcate tipiche dell’US Metal alle aperture dei Queensryche di The Warning. Con Epitaph si inaugura un terzetto di gran valore: l’arpeggio iniziale ricorda Take Hold of the Flame (da The Warning dei Queensryche), ma la trama si evolve ben presto in un angoscioso dialogo tra Dane e la sezione ritmica che ricorda i Savatage di Hall of the Mountain King e Gutter Ballet. Ma sono il bridge ed il ritornello che meglio caratterizzano i Sanctuary nell’alternare acuti disperati, assolo, break atmosferici e ripartenze. Mentre si chiude Epitaph con nuovi richiami a Queensryche e Fates Warning (pre No Exit era), si apre Eden Lies Obscured, e qui siamo in presenza di una maestosa avanzata in stile Metal Church che, però, cerca di innovare il genere con soluzioni inedite come il controcanto in baritono e ritmiche incrociate chitarra ritmica/solista che ritroveremo negli anni ’90 anche nel death melodico di Paradise Lost e Anathema. Ma tutta la canzone è pervasa da un alone “gotico” che i Nostri ereditano dai Warlord e che influenzerà Morgana Lefay e Tad Morose qualche anno più avanti. Così come è innovativa la quasi title track The Mirror Black. L’epicità è quella dei Fates Warning del capolavoro Awaken the Guardian, ma il testo si propone come ideale continuazione di The Lady Wore Black dell’esordio dei Queensryche.

Un peccato che questo disco così innovativo si concluda con il trittico Seasons of Destruction, One more Murder e Communion ispirato ad un US Metal più canonico.

6. WarlordDeliver Us (1983, Stati Uniti, Metal Blade Records)

Deliver Us ci trascina fin dalla copertina in un mondo misterioso dove regnano folletti e maghi: la title track, dal vento all’arpeggio medievale per finire alla tastiera neoclassica, è l’inizio di un modo di intendere il Metal in maniera diversa. Vi è qualche richiamo ai primi Rainbow, ma è soprattutto il cantato quasi soprannaturale che stabilirà un trademark per il Prog Metal di stampo più epico ed evocativo. Winter Tears è, se possibile, ancor più eterea e definisce i canoni di quelle che saranno tutte le (power) ballad prog metal. Child of the Damned è una classica cavalcata metal divenuta storica dopo che gli Hammerfall ne fecero una cover nel loro debutto. Penny For a Poor Man è maggiormente debitrice al NWOBHM, ma la tensione emotiva del brano la fa sembrare lontana anni luce dalle ruvidità inglesi. Black Mass è un oggetto sconosciuto per il Metal del 1983, essendo un brano doom a cui i Candlemass si ispireranno per tutta la loro carriera, ma che si apre a progressioni epiche e variazioni prog su, appunto, tematiche ossianiche à la Black Sabbath. L’EP si conclude con un altro classico, Lucifer’s Hammer, traccia molto più vicina agli standard Rainbow/Black Sabbath ma comunque innovativa e vagamente anticipatrice di un suono tipicamente US come quello dei Savatage.

Segnaliamo che i Warlord partecipano alla compilation della Metal Blade, Metal Massacre III, con un brano inedito, Mrs. Victoria, ideale conclusione del primo EP. Il brano è un capolavoro del Prog Metal di tutti i tempi. I quasi sei minuti si articolano su diversi piani e fanno da colonna sonora ad un caratteristico racconto dell’orrore sulle streghe. L’intro sinistra di tastiera apre la canzone con un recitato mozzafiato che introduce la tipica ritmica Warlord che mescola Mercyful Fate, NWOBH ed elementi di neonato US Metal. Inserire la tastiera in un brano metal a quei tempi era considerato quasi un abominio, ma l’innovazione dei Warlord non si esaurisce all’inserzione saltuaria di questo strumento bensì sta tutta nel ruolo predominante che esso ha nella struttura della canzone la quale si dipana in maniera sinistra ed epica tra assolo e variegati cambi di ritmo fino alla tragica conclusione.

5. Dream TheaterWhen Dream and Day Unite (1989, Stati Uniti, MCA Records)

L’esordio dei DT era indubbiamente avanti per l’epoca in cui uscì, essendo diverso dai dischi di Fates Warning, Watchtower o Sieges Even o anche Voivod, perché, un po’ come i Sanctuary, introduceva un altro elemento oltre la perizia tecnica del gruppo: la melodia, dovuta soprattutto alla presenza di tastiere e sintetizzatori a iosa, cosa ancora inusuale per il Metal dell’epoca. In una parola, era non facilmente categorizzabile, perché qui i DT amalgamano insieme i Rush (quelli degli anni ’80), i Metallica più melodici ed un certo Pomp‑AOR (Kansas, Styx, Asia) che in America aveva tanto successo.

A Fortune in Lies è la canzone che scomodò il famoso paragone con i Metallica, sebbene avesse un break del tutto diverso da qualsiasi cosa prodotta dal Thrash fino ad allora. Status Seeker invece richiama la componente AOR con la partenza che ricorda gli Asia di Alpha o Astra, mentre la strofa ed il ritornello sono figlie di quei capolavori dei Rush di metà anni ’80, e l’assolo ha il trademark petrucciano che farà la fortuna dei DT. Lo strumentale The Ytse Jam mischia i Rush di YYZ con gli Yes e mette in mostra la perizia dei Nostri. A qualcuno, la successiva The Killing Hand potrebbe far storcere il naso per la sua magniloquenza epica a tratti forzata ma, in realtà, si tratta di un altro tipico episodio che farà storia: intro stile Rage for Order/The Warning (Queensryche), strofa nostalgica e marziale che ricorda a tratti gli In the Nursery, ritornello indubbiamente DT. I numerosi cambi di ritmo e le fughe progressive à la ELP o il break à la Queensryche di Operation: Mindcrime (che sarà ripreso in A Change of Season) ne fanno un piccolo capolavoro.

Il secondo lato inizia con il mid tempo Light Fuse and Get Away, che risente chiaramente dell’essere stata composta prima come strumentale (e riemergerà alla grande in Scarred qualche anno più tardi), ma si ritorna in zona capolavoro con l’immortale After Life. Qui si intrecciano nuovamente Styx, Rush e Iron Maiden ma, fondamentalmente, è arduo trovare paragoni per l’inseguimento chitarra‑tastiera che tanta fortuna porterà ai Nostri o per il break iper‑arrangiato che conduce all’assolo di Petrucci (molto simile a Under a Glass Moon). Prima del gran finale, si tira un po’ il fiato con The Ones Who Help to Set the Sun, ma si rientra subito nel seminato con Only a Matter of Time, che, introdotta dalle tastiere in stile Europe, alterna cambi di ritmo, inserti quasi orchestrali e progressioni in tempi dispari à la Marillion di Incommunicado (ed, infatti, Clutching at Straws sarà spesso ripreso dai DT).

4. Fates WarningPerfect Symmetry (1989, Stati Uniti, Metal Blade Records)

A partire dalla copertina del vecchio operaio che guarda una statuetta su un nastro trasportatore, veniamo proiettati in un mondo claustrofobico e denso di grigiore (il grigio di sfondo dell’artwork). È questa una delle differenze fondamentali del Prog Metal rispetto al suo nobile progenitore: il pessimismo diviene uno dei temi fondamentali del genere, e le strutture musicali complesse assurgono a metafora della complessità della mente umana.

Perfect Symmetry rappresenta un viaggio. Part of the Machine richiama nel titolo i Pink Floyd, ma le similitudini finiscono qui. Muovendo da un tessuto chiaramente techno thrash à la Watchtower meno folle e più controllato, i Nostri introducono lo stato di isolamento ed alienazione del protagonista. La successiva track è l’immortale Through Different Eyes che anticipa, invece, il problema dell’incomunicabilità tra uomo e donna che sarà il tema centrale di Parallels. Musicalmente, ci troviamo di fronte a quello che diventerà uno dei marchi di fabbrica dei Nostri e di tutto il genere: cavalcata stile Iron Maiden, strofa atmosferica in tempo dispari con arrangiamenti eleganti e ritornello orecchiabile che richiama la melodia iniziale. L’assolo è molto melodico e influenzerà in maniera decisiva il modo di suonare di Petrucci. Il viaggio prosegue con la geometrica Static Acts che si aggancia al precedente album ma subito evolve in passaggi atmosferici a cui i Sieges Even di Steps dovranno praticamente quasi tutto. È l’alternanza tra parti acute e parti rallentate a rendere il pezzo indimenticabile e a stabilire, nuovamente, standard molto alti per il genere. Si continua con A World Apart, introdotta da un inquietante riff che sfocia in un cantato evocativo à la Queensryche di Roads to Madness, fino agli assolo in mid tempo di Matheos che ricamano la parte centrale. Ma questo è solo l’antipasto di At Fates Hands: un violino annuncia quella che nella prima parte si rivela un’ottima ballad molto simile ai movimenti più atmosferici della suite del precedente No Exit, e con temi lirici che saranno riproposti in Parallels in maniera più diffusa. A metà arriva la splendida sezione musicale che rimanda alla struttura di Firth of Fifth, soltanto metallizzata a dovere, con l’ospite Kevin Moore a fare la parte del leone ed alternare gli assolo di Matheos. Si rimane sempre spiazzati dalla conclusione brusca e dall’attacco di The Arena che, invece, rappresenta un episodio più anonimo e praticamente uguale a Silent Cries di No Exit.

Ma la pausa nella drammaticità del racconto è molto breve, in quanto veniamo di nuovo catapultati nel mondo isolato e grigio del protagonista con la triste Chasing Time che racconta di occasioni perdute e amori non corrisposti. Il disco si conclude con un altro highlight che è Nothing Left to Say. Qui sembra di ascoltare i Megadeth di Rust in Peace (disco che uscirà l’anno dopo) rallentati ma con la stessa maestria tecnica. La track si evolve, quindi, come una semi‑ballad che a tratti rimanda al passato dei Fates Warning mentre la struttura è del tutto simile a Take Hold of the Flame dei Queensyche. Come nel caso di At Fates Hands, la parte finale si riapre, e qui i Nostri mostrano come possono picchiare nel modo più classico.

3. RushGrace Under Pressure (1984, Stati Uniti, Mercury Records)

Grace Under Pressure è freddo come la copertina, che ben introduce il disco, anche a causa della produzione ingenua, ma allo stesso tempo riesce a trasmettere sentimenti ed emozioni che difficilmente altri gruppi riusciranno a bissare.

L’influenza di questo disco è enorme e va dal Techno Thrash dei Sieges Even al Prog Metal degli Enchant per finire ai Dream Theater. Il perché è presto detto: atmosfere robotiche e futuristiche, soluzioni tecniche al di sopra della media, testi mai banali.

Distant Early Warning sembra inizialmente una versione cattiva dei Police di Walking on the Moon, ma subito accelera fino al refrain evocativo. Si prosegue con Afterimage che, praticamente, inventa l’attacco tastiera/chitarra che farà presto scuola (Afterlife dei Dream Theater ma anche Paradox dei Threshold). Musicalmente, siamo molto vicini ad un incrocio tra l’AOR ed una New Wave à la Depeche Mode, il che spiega perché quest’album sia innovativo. Red Sector A è abbellita da un riff diventato leggenda perché fa duellare la chitarra iper-prodotta di Lifeson con i sintetizzatori di Lee. Il testo fa ritornare per un attimo l’universo distopico di 2112, ponendosi come ideale continuazione (o, meglio, spiegazione) del gran finale della suite. The Enemy Within conclude degnamente il lato A, anche se la produzione qui indugia decisamente troppo su ritmiche simili ai Police. Inutile dire che le parti strumentali che inframmezzano il brano saranno saccheggiate a piene mani negli anni ’90 da Enchant, Threshold e compagnia.

Il lato B comincia con The Body Electric, caratterizzata dalla strofa lenta e, quindi, una progressione che richiama i Marillion di Fugazi e Misplaced Childhood (non per niente, in tour con i Nostri proprio in quegli anni negli States), una struttura che i Marillion ed i Rush stessi svilupperanno negli album a venire. Kid Gloves è ancora New Wave allo stato puro stile Chamaleons, mentre Red Lenses è il classico filler, molto simile ai Blue Oyster Cult dell’epoca. Il disco termina con l’epica Between the Wheels, un bellissimo pezzo con numerosi cambi di tempo e fughe progressive con duello incorporato tra sintetizzatore e chitarra che regala al brano maestosità ed elegante raffinatezza, caratteristiche che diventeranno tipiche del Prog Metal, come altrettanto tipiche diventeranno le pessimistiche lyrics.

2. Crimson GloryCrimson Glory (1986, Stati Uniti, Roadrunner Records)

La copertina, con la maschera d’argento e le rose, già ci preannuncia ciò che ascolteremo: un metal neo‑classico ricco e raffinato, iper‑prodotto e arrangiato. E innovativo.

L’influenza dell’opener Vahlalla sul Power e Prog Metal degli anni ‘90 è paragonabile solo a quella dei due Keeper degli Helloween: mescolando i Queensryche, quelli di Rage for Order (l’opener Walk in the Shadows) e dell’omonimo EP, i Nostri riescono ad inserire in una struttura tipicamente US Metal un cantato epico ed evocativo con un riffing che trascina dall’inizio alla fine. È il suono ad essere “nuovo” qui, non tanto la struttura della canzone: una produzione cristallina aiuta, infatti, a rendere la tipica cavalcata “maideniana” qualcosa che “sembra” come fosse suonato da un’intera orchestra, proprio come succedeva per il vecchio prog. E l’assalto continua con Dragon Lady, più commerciale ma non meno trascinante. Midnight è cattivo al punto giusto, ed il suo modo di cantare influenzerà molti suoi epigoni, uno fra tutti Warrel Dane dei Sanctuary. Heart of Steel comincia come un lento quasi AOR (questa influenza si sentirà molto nel successivo disco) e prosegue con un cantato epico che diventa “priestiano” nei modi e nei contenuti: i CG aggiornano il suono dei connazionali Savatage aggiungendo numerosi cambi di tempo e cercando sempre l’acuto o l’assolo risolutore. La song si chiude con l’acuto di Midnight che attacca subito con la neo-classica Azrael. L’intro è, ancora una volta, un capolavoro di atmosfere epiche, ma qui è il riffing martellante l’arma vincente. Viene, quindi, il turno del folle speed metal di Mayday, quasi tre minuti di pura velocità che molti chitarristi (Timo Tolkii con i suoi Stratovarius) imiteranno nel futuro, laddove i Crimson Glory duellano idealmente con i connazionali Vicious Rumours per ottenere la palma di re dell’US Speed Metal. I Nostri cambiano di nuovo marcia con il mid tempo Queen of the Masquerade, richiamando ancora in causa i Vicious Rumours, mentre con Angels of War ritroviamo il loro trademark che mescola i Queensryche più epici ai Savatage. E si arriva, quindi, alla track conclusiva Lost Reflection che giustifica la posizione così alta dei Crimson Glory. Riprendendo atmosfere care ai Warlord (Mrs. Victoria), i CG tessono dapprima un mosaico acustico inquietante che servirà come canone per il Prog Metal di matrice più horror (gli Annihilator di Alice in Hell) e, poi, esplodono in una folle progressione.

Non c’è tempo per riflettere, perché nella versione Cd già inizia Dream Dancer, perfetta sintesi tra Warlord, Iron Maiden e Queensryche: l’intro deve qualcosa a I Will Remember dei Queensryche e a Deliver Us (Warlord), ma il cantato è molto più simile a Take Hold of the Flame (sempre dei Queensryche), fino all’apertura in stile US Metal e Iron Maiden. Oltre al valore enorme in sé della track, facciamo notare gli arrangiamenti neo‑classici che accompagnano le declamazioni di Midnight. Anche qui la progressione finale è da manuale con i suoi assolo stile twin guitars e l’arrangiamento di tastiera che diventeranno uno dei marchi distintivi del Prog Metal.

1. QueensrycheRage for Order (1986, Stati Uniti, EMI)

Questo disco sicuramente ha avuto il merito di rivoluzionare un certo modo di fare metal negli anni ’80, almeno per quel che riguarda il mainstream. Se Walk in the Shadows era, in fondo, solo un grandissimo opener ma in definitiva non rivoluzionario, le cose diventano terribilmente serie con I Dream in Infrared, che si apre con un arpeggio sinistro che, poi, lentamente evolve in una spirale progressiva che cerca di mettere in pratica la lezione dei Warlord del primo EP, con la voce di Tate a svettare, a volte epica a volte rituale, come solo i Nevermore sapranno fare nel futuro. The Whisper riprende il tema di Walk in the Shadows, questa volta inframmenzandolo con richiami epici del primo disco. Gonna Get Close to You è la cover di una pop singer canadese (Dalbello) riproposta in chiave metal, con un’inquietante produzione (e video) che regala un’atmosfera decadente e progressiva allo stesso tempo.

E da qui in poi si entra nella storia: The Killing Words è LA power ballad per eccellenza del Prog Metal, intensa e drammatica, centrata sul rapporto difficile tra uomo e donna. Le ritmiche saranno riformulate dai Crimson Glory nei loro due dischi più riusciti, mentre le liriche forniranno spunti per i Fates Warning della fase più intimista. Le atmosfere, be’... quelle le ritroveremo in quasi tutti i lenti metal a seguire, dai Metal Church ai Savatage. La voce di Tate fa venire i brividi, e se qualcuno pensa che sia la produzione a donare a questo brano la sua leggendaria bellezza, suggeriamo di ascoltare la versione acustica inclusa nell’edizione rimasterizzata, per convincersi anche che il Techno Metal si faceva con il cuore e non con la tecnologia. Surgical Strike sembra un classico pezzo à la Iron Maiden ma, immediatamente, si viene proiettati in ritmiche dispari e progressioni che faranno la fortuna dei Voivod. Neue Regel è psichedelia metallica allo stato puro, con atmosfere che i Nostri riprenderanno in Operation: Mindcrime, elaborando il riff centrale con dovizia di arrangiamenti e orpelli di produzione. Il cantato di Tate è filtrato come se provenisse dallo spazio lontano, mentre le ritmiche riecheggiano il battito di automi e macchine che cercano di prendere il sopravvento sul genere umano. Il tutto inserito in un ritornello evocativo e straniante che rende il pezzo un capolavoro saccheggiato da tutti. Chemical Youth prosegue senza soluzione di continuità il discorso della precedente track con numerosi cambi di ritmo su una struttura di base propriamente US Metal, mentre London ci offre un riparo con il suo incedere lento, quasi doom, intervallato dagli arpeggi di chitarra che donano la veste tipica del Prog Metal di Operation: Mindcrime e del genere tutto. Le ritmiche saranno riprese in Empire con più ampio respiro, restituendo quell’alone AOR che qui è del tutto assorbito dalla superba produzione. Con lo sfumare di London si rientra nel futuro (in tutti i sensi) con Screaming in Digital, forse il capolavoro assoluto del disco. La strofa attualizza la lezione di Judas Priest di Screaming for Vengeance e Freewheel Burning, mentre l’organo sullo sfondo dona il tono sinistro che farà la fortuna dei Veni Domine nel loro capolavoro Fall Babylon Fall. L’assolo ricorda ancora i Judas Priest e gli Iron Maiden, ma l’epicità della traccia la fa diventare unica ed imitata. Il disco si conclude alla grande con l’acustica I Will Remember, un lento ricco di atmosfera che permette di tirare il fiato dopo le sfuriate progressive del disco. La voce di Tate è di nuovo protagonista, ma è l’arpeggio di DeGarmo che rende il brano immortale. Da notare che la tastiera di sottofondo sarà adottata dai Crimson Glory nell’altrettanto immortale brano Dream Dancer, praticamente coevo, che costituirà la bonus track del loro omonimo debutto.


Italo Testa

giugno 2013

Ultimo aggiornamento (Giovedì 06 Marzo 2014 15:01)