Prima serata – 22 gennaio 2013 – Alkatrazz Milano

L’appuntamento di questa due giorni marillica a Milano era molto atteso: sul web rimbalzavano da giorni anticipazioni e sondaggi su quali scalette i Marillion avrebbero eseguito, specialmente nella seconda serata (Holidays in Eden completo? No, già fatto nel 2011. Brave completo? No, troppo presto, lo faranno nei Marillion weekend del 2013). Comunque, per questa prima serata sembrano esserci pochi dubbi: i pezzi forti saranno quelli dell’ultimo, ottimo, Sounds that can't be made (STCBM). Verso  le 20:00 il locale è ancora lontano dalla sua capienza, tranne le prime file del fan club Italiano. Età media alta, troppo (45-50). I pochi ragazzi che sono qui si vede che sono figli quindicenni di padri che li hanno cresciuti a latte e Marbles. Sembrano lontani secoli le colorite “folle” che accoglievano i nostri nel biennio 1985-1987, di “jesters” nemmeno l’ombra, l’impressione è veramente che quel mondo non esista più.
A conferma di questa impressione, apre il concerto un ragazzo di nome Marco Machera, con la sua band. Genere indefinibile, al confine tra il rock cantautoriale italiano ed americano, con qualche arrangiamento interessante proposto dal tastierista. Onore ai Marillion per aver scelto un ragazzo semisconosciuto e chiaramente loro fan (lo dichiara in più di un’occasione tra una canzone ed un’altra) ma non clone; però conoscendo la scena italiana ed il gran numero di gruppi prog e prog-metal più o meno affermati (qualche esempio: Zarathustra, Tempio delle Clessidre; Secret Sphere, Vision Divine) che hanno difficoltà a diffondere la loro musica in questo paese qualche domanda ce la si pone. Ma forse, come detto prima, per i Marillion quel modo di fare ed intendere musica è tramontato ed i loro fan di adesso non saprebbero che farsene di questi gruppi.


Verso le 21:30 le luci si spengono e uno ad uno i nostri salgono sul palco. Nel frattempo il locale si è riempito (almeno la metà messa a loro disposizione) e si arriva alle 600-700 annunciate presenze. Ed ecco che subito partono le note introduttive della lunga Gaza. Tutti sono in gran forma ma chi veramente domina (e dominerà) letteralmente la scena è lui, H, inizialmente con una felpa bianca con il simbolo della pace ben visibile. Si vede che sente i testi e non fa nulla per dissimulare emozione e profondità. La nuova Forgotten sons almeno emotivamente colpisce quanto la prima, e anche Rothery insegue i fantasmi del suo passato con un accompagnamento atmosferico che nel break ci ricorda tanto Blind Curve ed un assolo magistrale che strappa un lungo applauso. Ma sono le movenze di H che colpiscono, ricordando un Peter Nicholls annata di grazia 1997 dei bei tempi andati di Subterranea. Terminata la prima suite, e dopo un rapido cambio da felpa a giacca, H gioca con le parole per introdurre l’altra grande attesa suite e cioè Ocean Cloud, di marblesiana memoria. I 17 minuti trascorrono veloci tra i vari effetti ed il racconto del protagonista di cui ci rende partecipe H con la sua interpretazione. Il pubblico ama quel disco e questo brano in particolare e non fa nulla per nasconderlo, cantando tra sé e sé per non disturbare l’esibizione, ma infine esplodendo all’assolo breve ma liberatorio di Rothery nei due minuti finali. Non c’è dubbio, un 1-2 che rende questa serata già storica. Al termine, H si ferma e ci rammenta che ci sono appena state le elezioni in Isreale e questo fa assumere a Gaza un significato ancor più particolare. Quindi ci concede un breve respiro con la leggera Pour my love dall’ultimo STCBM. Niente di speciale, H ricorda, quasi a discolpa, che i testi non sono suoi, ma alla fine anche questo brano lascia tutti soddisfatti. Le cose diventano di nuovo tremendamente serie con Neverland, l’altra suite di Marbles, ed anche qui si rimane esterrefatti di come i nostri riescano a riprodurre tutti gli effetti che si sentono su disco. Anche qui pubblico in visibilio e commozione diffusa. Segue quindi un nuovo terzetto da STCBM, questa volta molto più intenso: Power, le cui difficoltà H supera alla grande, la title-track del disco, con un coro finale spontaneo del pubblico che ripropone la melodia, e la conclusiva Sky above the rain, che lascia finalmente un po’ di respiro. Dopo un brevissima pausa di silenzio parte The great escape / Last of you tra un boato assordante. Terrificante l’interpretazione di H e terrificante la prova di tutti gli altri, facendo presagire davvero una nuova vita per quel capolavoro del 1994 quando sarà riproposto al completo in qualche prossimo Marillion weekend. Finale per the Man of a 1000 faces che di nuovo esalta con il riff iniziale il pubblico che saluta il gruppo  per un doveroso riposo.
Pausa di circa tre minuti e i nostri risalgono sul palco tra le ovazioni del pubblico. Breve momento di pausa e H lascia la parola a Rothery che introduce Warm Wet Circles. La compostezza che  ha contraddistinto il pubblico a causa della presenza dei cultori del prog da camera e rock anni ‘60 di Marbles finalmente lascia il posto all’anima più rock ‘80 che finalmente può cantare indisturbato a viva voce qualcosa di un passato che non c’è più. Tutto vero che i Marillion anni 2000 sono raffinati e colti, ma gli inni del passato non si dimenticano e quindi tutti a cantare all’unisono “like a mother’s kiss on her first broken heart” e ad emozionarsi per l’attacco a That time of the night, nel cui crescendo H riesce incredibilmente a trasmettere tutta la rabbia fishiana del tempo pre-split. Coro finale con pugni e braccia alzati a ricordare che una volta questa band riempiva stadi ed influenzava giovani virgulti con una energia che non sempre ha contraddistinto la carriera post-split. Nuovo stop e ritorno con il bis per un nuovo tuffo commovente nel passato, di poco più recente rispetto ai precedenti highlights, con la splendida Easter che immalinconisce non solo per il mood ma anche perché ci ricorda che a quei tempi i Marillion erano ancora ascoltati per radio e televisione e combattevano per i primi posti delle charts inglesi e continentali. Dopo questo 1-2 davvero non abbiamo più nulla da chiedere stasera, per cui H stempera la nostalgia con l’irriverente Three minutes boy. Non sarà la conclusione più degna di una grande serata, ma almeno ci riporta con i piedi per terra e pronti a sperare nella serata domani.

Interludio – Meet and Greet del 23 gennaio, ore 15, Frida Club, Milano

Ritroviamo i nostri  il pomeriggio successivo ad un pub vicino all’Alkatrazz. Il luogo è già strapieno alle 15:00 (orario di appuntamento). H e Rothery al primo tavolo monopolizzano l’attenzione. Non c’è tempo per scambiare due chiacchiere, ma solo per avvicinarsi e immortalarsi con i due. Sotto le mani dei due scorrono copertine di dischi storici, anche di fishiana memoria (Fugazi, Misplaced Childhood). La richiesta di limitarsi ad un pezzo da farsi autografare non viene rispettata quasi da nessuno. Particolarmente apprezzato un doppio Brave e un Holidays in Eden rimasterizzato. Constatiamo con piacere che il nostro 7’’ picture di Easter è un pezzo unico. Ritroviamo anche gli altri più isolati: uno scanzonato Ian Mosley, un timido Trewawas ed un particolarmente sperduto Mark Kelly. Ascoltiamo con interesse che alcuni dei presenti non hanno gradito l’accoppiata Gaza-Ocean cloud all’inizio della serata precedente perché avrebbe smorzato la tensione, e apprendiamo che il sogno proibito di molti si chiama Montreal (un siparietto ad essa relativo sarà celebrato in serata). Infine, lasciamo la birreria con negli occhi la scena di una signora abbastanza in avanti con gli anni che già nel locale aveva chiesto a H di suonare Neverland e che ferma Trewawas raccomandandosi  nuovamente di eseguire quel capolavoro dei Marillion moderni. Lui la rassicura e lei trae un gran sospiro di sollievo. Ci resta la domanda del perché di questa richiesta (forse inconsciamente ci aspettavamo la richiesta impossibile di eseguire Grendel) e soprattutto del cosa significhi questa canzone per questa signora…

Seconda serata – 23 gennaio 2013 – Alkatrazz Milano

Ed ecco ci arrivati alla seconda serata. Arriviamo giusto in tempo per perdere il gruppo di supporto e aspettiamo circa  tre quarti d’ora l’inizio. Le presenze si aggirano, come la sera precedente, intorno alle 600 persone. Come la sera precedente, i componenti salgono uno per uno sul palco, H chiude la parata. Le note introduttive ci dicono subito che le scalette non sono affatto “completamente diverse” come annunciato sul sito del fan club italiano: d’altronde era impossibile pretendere che i nostri non riproponessero a beneficio degli assenti di ieri nuovamente gli estratti dell’ultimo STCBM. Per tale motivo, l’apertura è nuovamente appannaggio di Gaza. I suoni sembrano migliori della serata precedente ma la performance resta incredibilmente emozionante. Confermiamo che il break dal vivo assomiglia molto (troppo) a Blind Curve, ma questo non può che farci piacere. Al termine H saluta il pubblico e resta in attesa di possibili richieste. Inutile dire che rimarranno tutte tristemente inesaudite; anzi, la serata si dimostrerà all’insegna della più intransigente delle scalette, con nessuna concessione al passato (incluso il periodo 1989-1994) ma attenzione soprattutto al periodo post millenario dei nostri. Comprendiamo quindi che i Marillion sono ben consapevoli di fan come la signora in là con gli anni del pomeriggio che vuol sentire quelle canzoni e che soprattutto vuole immergersi in quel mood. Logico quindi che i vecchi jesters non siano più qui. Lo stesso H scherza su questa intransigenza annunciando una canzone che nessuno vuol sentire, cioè Beautiful, dall’ultimo album targato EMI dei nostri. Si inaugura così una parentesi apparentemente infinita di lentoni che continua con Sky above the rain, prosegue con la marblesiana coppia You’re gone e Fantastic place e si conclude ciclicamente, e finalmente, con Pour my love, preceduta dalla spiegazione, rivolta a qualcuno che chiedeva a gran voce Montreal, che quest’ultima se la riservano per un’altra occasione speciale (chi ha detto Marillion weekend?). Durante questo break lento, il pubblico sembra un po’ perso, distratto: rispetto alla sera precedente canta di meno e ci sono, se possibile, ancor meno giovani. Ci si riprende un po’ con la title-track  dell’ultimo cd che suscita nuovamente entusiasmo a causa del coro finale sperimentato la sera precedente. Ma la scossa dura poco in quanto si  ripiomba immediatamente in un mood semi-acustico con Somewhere else che però si riscatta con il grandissimo assolo finale. Si prosegue l’alternanza nuovo-nuovissimo con Power in cui H sfodera nuovamente tutte le sue capacità istrioniche. Al termine di questa prima parte del concerto si torna finalmente indietro ad una King d’annata e soprattutto alla chicca della serata costituita dal capolavoro This Strange Engine che finalmente ricorda a tutti di cosa sono capaci i nostri. Con una punta di orgoglio ci immergiamo nei cambi di ritmo mentre fidanzate sperse digitano completamente indifferenti qualcosa su Facebook… 

È quindi finalmente il tempo dei bis. Volevate nuovamente rivangare il passato che non torna come ieri? Volevate almeno per una sera ritornare jesters? No! Ci ritroviamo invece nuovamente catapultati nel mondo di vetro, fragile ed etereo di Marbles, prima con l’iniziale The invisible man, che H sente particolarmente (e chi ha visto le esibizioni del 2011 sa cosa intendiamo) ed infine con la conclusiva e bellissima Neverland che fa esclamare al pubblico un sentito “ti amo”. E così, anche la fantomatica signora è stata accontentata, addirittura con il pezzo di chiusura… E questa immagine rappresenta benissimo cosa sono i Marillion oggi: una band che suona praticamente per un ristretto ma scelto gruppo di amici devoti che la seguono senza se e senza ma, amici che hanno seguito il post Fish (o cominciato parecchio dopo) con ardore fanatico e che hanno soppiantato, quasi fosse un merchandise datato, gli “altri”, coloro che vivevano nell’immaginario colorato da citazione letteraria degli anni ’80. I “nuovi”, insieme a coloro che come noi sono rimasti fedeli ma forse un po’ distaccati, si beano delle divagazioni rock ‘60, prog e pop, e adorano  il loro unico sacerdote, H, istrione sardonico sì ma mai eccessivo o sopra le righe (certamente, lo aiuta la statisticità che da sempre ha contraddistinto tutti i componenti, Rothery in primis). Quindi, se un ricordo solo di questa due giorni ci rimarrà, sarà effettivamente il carisma di H, cementato in 25 anni o giù di lì di carriera insieme ai nostri.


Italo Testa
gennaio 2013

Ultimo aggiornamento (Venerdì 25 Gennaio 2013 13:45)